Viviamo nell’epoca dell’abbondanza.
Tutto è a portata di mano: tecnologia, intrattenimento, comodità, beni di consumo.
Possiamo ordinare un pasto da uno smartphone, vedere il mondo da uno schermo, comunicare in tempo reale con chiunque.
Eppure, mai come oggi ci sentiamo svuotati, inquieti, a tratti persi.
È il paradosso del benessere apparente
Possediamo molto, ma siamo colmi di inquietudine.
Abbiamo più opzioni, ma meno direzioni.
Più cose, meno senso.
L'infelicità moderna non nasce dalla mancanza, ma dall'eccesso.
Un eccesso che disorienta, confonde, paralizza.
I social alimentano il confronto, l'insoddisfazione e la sensazione costante di essere in ritardo o inadeguati.
Viviamo per mostrare, non per sentire.
Sorridiamo per le foto, ma piangiamo in silenzio.
Spendiamo per apparire, non per costruire.
Ci perdiamo nel superfluo e ci dimentichiamo dell’essenziale.
Questo benessere ci ha resi più fragili, più confusi, meno liberi.
Abbiamo scambiato il comfort con la felicità, la comodità con la realizzazione.
E ci stiamo accorgendo, piano piano, che non funzionerà.
Serve tornare a un’idea semplice: la qualità della vita non si misura in giga, follower o brand. Ma in silenzi veri, relazioni autentiche e scelte consapevoli. Forse la vera ricchezza è proprio quella che non si può acquistare.
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