C’è stato un tempo in cui il tempo era umano.
Aveva il ritmo delle stagioni, dei passi, del silenzio.
Poi arrivò l’era della produzione, poi quella della prestazione.
E ora, quella dell’ossessione.
Oggi non ci è più concesso essere: dobbiamo performare.
Ogni minuto non "utilizzato" è un peccato moderno.
L’ozio è stato cancellato dal vocabolario etico, e chi lo rivendica viene guardato con sospetto. “Che cosa fai?” non chiede più come stai, ma quanto rendi.
In questo mondo cronometrato, l’icona che meglio ci rappresenta non è un volto sereno.
Bensì quello smarrito e meccanizzato di Charlot in Tempi moderni: inghiottito da ingranaggi che girano più veloci di lui, a rincorrere bulloni come noi rincorriamo mail, notifiche, KPI, followers, monetizzazione.
Ma i tempi moderni sono diventati ipermoderni.
Gli ingranaggi oggi non sono più fisici, ma digitali: algoritmi che ci profilano, app che misurano il sonno, il battito, i passi, i minuti persi sullo schermo.
Persino il riposo dev’essere efficiente.
Byung-Chul Han, in un saggio divenuto ormai riferimento, scriveva che "la società della stanchezza".
Quella in cui ci auto-sfruttiamo, in nome di una libertà che in realtà è solo ansia da prestazione.
Non serve più un padrone: basta un obiettivo.
Così il tempo libero è diventato "tempo da impiegare bene".
Una pausa non è più tale se non produce qualcosa: un contenuto, un networking, una crescita.
E se ti prendi una mattinata per guardare il cielo? Sei un fallito.
Se disinstalli i social? Antisociale. Se rallenti? Rimani indietro. Ma dietro a cosa, nessuno lo sa.
Eppure Pasolini ci aveva avvertiti: quando il tempo non serve più a raccontare ma solo a consumare, qualcosa muore.
E non è solo la cultura. È l’anima.
Forse dovremmo ricominciare da Chaplin: da quel suo passo scoordinato, buffo, eppure profondamente umano.
Ricominciare a difendere il diritto a perdere tempo. Che poi, forse, è il modo migliore per ritrovarlo.
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