Contrabbandati

Contrabbandati
In una città dove nulla è davvero ciò che sembra, un Commissario fuori dagli schemi e un Giornalista a caccia della verità, si trovano immersi in una vicenda (forse) più grande di loro, tra traffici, tradimenti e redenzioni. "Contrabbandati" è un romanzo crudo e autentico, che mescola il ritmo del noir con il battito umano di chi, tra errori e speranze, cerca una via d'uscita. Una storia che sorprende, colpisce e, soprattutto, rimane. (Elio Montorsi)
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martedì 9 settembre 2025

FATTI E MISFATTI DI UNA CULTURA PAUPERISTICA IN UNA SOCIETA' OPULENTA- Atto secondo

La scorsa settimana ho pubblicato la mia prima "tematica" relativa a questo argomento, con la promessa di riprenderlo, sviluppando concetti micro economici.

E' arrivato il momento di farlo!!!

Sicuramente, in questo caso, scandagliando l'argomento nel dettaglio, all'interno della nostra società, l'approccio cambia enormemente e l'argomento diventa estremamente più complicato.

Quale sarebbe il motivo di questa difficoltà?

Bisognerebbe, a mio avviso, fare un distinguo importante, tra cultura pauperistica (come descritta nel titolo) e pauperismo.

A primo acchito, la lettura del titolo non lascerebbe intravvedere dubbi, in quanto trattasi di "cultura pauperistica", ma se così fosse, il tema si concluderebbe in poche righe.

Cosa sarebbe la cultura pauperistica?

La cultura pauperistica,  praticata in passato, principalmente per motivi religiosi, consisteva in una decisione di spontanea volontà di essere povero e vivere in modo umile. Nel Medioevo era molto praticata, ed ha avuto in San Francesco d'Assisi ed in Valdo da Lione i suoi principali esponenti.




Ai giorni d'oggi, è vista in senso più moderno come una filosofia di vita, in risposta ad un'esistenza dedita esclusivamente all'accumulazione di ricchezza e di beni materiali, e consisterebbe nell'adozione di una vita spirituale ed essenziale, basata sui concetti della decrescita felice.

Ben diverso è il pauperismo

Da intendere come gravissima situazione di depressione economica, estesa a larghi strati della popolazione, conseguenza di molteplici fattori (forte diminuzione di risorse capitali, distribuzione disuniforme di ricchezza, scarsissimo spirito imprenditoriale, guerre, carestie, crisi economica, inflazione galoppante).

Se nel primo caso la povertà è vissuta in modo volontario, nel secondo è una condizione imposta dalle avversità della vita!


Sulla "cultura pauperistica" non avrei nulla da obiettare

Lo sento come uno strumento di difesa, vissuto probabilmente in modo "particolarmente estremo", ai canti delle sirene provenienti dalla società consumistica ed opulenta di oggi.

La semplicità è un valore molto importante ed è il punto cardine per il successo legato alla finanza personale, la quale si fonda, principalmente, sulla gestione oculata del denaro.

"Se compri cose di cui non hai bisogno, presto dovrai vendere cose di cui hai bisogno"

E' una frase storica di Warren Buffet che, per chi non lo conoscesse, è il più grande investitore di tutti i tempi, forte di un patrimonio che supera i 150 miliardi di dollari.






Più che mai adatta all'economia consumistica di oggi, fondata sul debito.

Concetti toccati anche in diversi dei miei libri, sia economici che non.















Ed una realtà sotto gli occhi di tutti

Secondo quanto riportato dalla rivista LMF (La Mia Finanza), questo 2025 ha registrato  un aumento del numero degli italiani indebitatisi per andare in vacanza.

Lungi da me esprimere alcun tipo di giudizio (chi sono io per farlo?),  ma l'importante è essere consapevoli delle proprie scelte, fatte in autonomia e responsabilità, e non incolpare gli altri, nei momenti bui, per le proprie disavventure.



martedì 2 settembre 2025

FATTI E MISFATTI DI UNA CULTURA PAUPERISTICA IN UNA SOCIETA' OPULENTA - Quel tema che non ha mai smesso di farmi pensare

Più di trent'anni fà, un ex professore d'italiano, avuto durante le scuole superiori, ci diede da svolgere un tema dal titolo molto particolare ed estremamente complesso.



Inutile ripeterlo,  penso l'abbiate  capito.

In quel momento lo odiai, concentrando i miei pensieri su di lui e non sull'argomento,  gli diedi, in cuor mio, dello scemo, lo fecero tutti, quindi ero convinto di essere nella ragione.

Sono passati più di tre decenni da quel giorno e, come per incanto, ho avuto l'intuizione.

Mi piacerebbe poterlo incontrare nuovamente, e scusarmi per aver pensato male di lui; facendomi un pò di giusta autocritica devo ammettere che, forse, lo scemo, quel giorno, ero io, perché non ero abituato a pensare abbastanza per capire, e focalizzare la mia concentrazione (scarsa) verso ciò che conta.

Era un tema difficile? Certo! Ma fatto per il nostro bene, il suo obiettivo era di farci migliorare, farci alzare l'asticella e, possibilmente, farcelo fare subito, perché un domani sarebbe stato troppo tardi (quel domani arrivò, ma trattasi già di..."ieri"). 

Lo disse anche Tim Cook, quando ci onorò della sua visita presso la Bocconi di Milano. 



Averlo capito solo ora, con notevole ritardo, mi ha fatto venire così tanti rimpianti dall'arrivare a  pensare che, forse, sarebbe stato meglio restare nell'ignoranza, e non averlo capito mai. 

Ma un piccolo cruccio mi voglio togliere, perché se è vero che è anagraficamente troppo tardi per crescere in certe aree della vita, non lo è per altre, compreso lo svolgimento di quel tema che non ho ancora dimenticato

In tanti modi avrei potuto svolgerlo, tanti buoni temi avrei potuto scrivere.

Avrei potuto scrivere un tema politico, un tema filosofico, un tema spirituale, un tema esistenziale, tanto per fare alcuni esempi. 

Ed invece? Tutto ciò che partorii la mia mente bacata di allora, indolente allo studio, fu una schifezza degna delle gesta di Pierino, il personaggio televisivo recitato divinamente dal compianto Alvaro Vitali.

Visto che non lo feci allora,  proverò a farlo oggi.

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Andando dietro alle mie passioni, gli darò un'impronta economica, sia da un punto di vista macro sia da un punto di vista micro. 

Oggi prenderò  in considerazione il macro, sarà un articolo diviso in un paio di puntate, seguendo la falsariga degli articoli, da me scritti qualche anno fà,  relativi all' Avventura di un povero cristiano

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Il primo argomento che mi viene in mente, rileggendo il titolo, riguarda l'attuale Europa, alle prese con una sorta di contraddizione interna.

La considero, anzi ci consideriamo una società opulenta,  in quanto ci troviamo (almeno per il momento) in una delle aree più ricche al Mondo, con standard di vita alti o, per certi verti versi, addirittura altissimi.




Una ricchezza, la nostra, esclusivamente figlia di un passato ormai remoto, dedito a lavoro, sacrificio e che, unito al boom economico dei memorabili anni sessanta, aveva posizionato molti dei nostri Paesi, fino alla fine del vecchio secolo, tra le prime potenze mondiali economiche.

Considero, d'altro canto, che tutto ciò abbia sviluppato una cultura pauperistica, che ha contribuito a farci smettere, da tempo, di valorizzare la ricchezza incentivando la crescita, coltivando piuttosto una mentalità volta ad ostacolare chi vorrebbe produrre ed investire. 

E' ormai scomparsa la voglia di sacrificarsi, per fare spazio ad un più comodo atteggiamento passivo ed improduttivo.

Ma non avevo recentemente scritto che al mercato non piace l'improduttività?

Eppure ho l'impressione che, qui da noi, in Europa (e l'Italia non fa certo eccezione) ci si concentri più su:
- diritti (spesso non accompagnati ai doveri)
- godersi la vita
- protezione di privilegi storici e datati, ma soprattutto ingiusti (vogliamo parlare dei vitalizi per i nostri amati politici? e, perché no? delle baby pensioni? No, poi divento antipatico)

D'altro canto, c'è poca attenzione ad investire sulla produzione reale e , soprattutto, sulla ricerca e sulla cultura.

La contraddizione è evidente

ci si lamenta della concorrenza globale (contemplata peraltro dalla democrazia) incolpandola per la nostra perdita di competitività, invece dovremmo agire per esserlo anche noi.

Ci si rifiuta categoricamente di prenderlo in considerazione, come se fosse il male, eppure la storia insegna che l'unico approccio che ha arricchito gli Stati, è stato quello capitalistico (adottato, tra l'altro anche dalla Cina, nonostante il governo sia comunista).

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Il rischio, per noi europei, è alto ed il Presidente dell'Argentina Milei, al W.E.F. del 2024, ne ha apertamente parlato

Ha sostenuto che, se non cambieremo velocemente, rischieremo di fare la stessa fine del suo Paese, passato, in soli 150 anni, dall'essere uno dei più ricchi ad uno dei più poveri del Mondo.

Al momento, a diciotto mesi di distanza, non c'è stata alcuna reazione al  monito, se non di scherno nei suoi confronti, per il  modo colorito e pittoresco di presentarsi al pubblico, ma i giorni, i mesi, e gli anni stanno volando via, e la situazione sta solo peggiorando......

ed i dazi, appena imposti da Trump (additato, dalle nostre parti, come il colpevole di turno, e di tutto), metteranno a nudo tante difficoltà.

Ma i problemi erano già esistenti, qualcuno l'aveva già detto in tempi non sospetti, solo che, fino ad ora, i nodi non erano venuti al pettine, probabilmente a breve accadrà.



Sta a noi decidere se restare una società opulenta che si consuma lentamente (ma non troppo), o se ritrovare il coraggio di produrre, di investire e di innovare.

La storia non aspetta, o torniamo protagonisti o saremo solo spettatori.

Scritto ciò, ti saluto! Non perderti il prossimo articolo o, meglio ancora, il prossimo tema :)




giovedì 29 maggio 2025

Il peso delle aspettative

Cresciamo con addosso aspettative che spesso non abbiamo scelto.

Quelle della famiglia, della scuola, della società. 

Ci dicono chi dovremmo essere, cosa dovremmo ottenere, in quanto tempo e in quale modo. 

E così, pezzo dopo pezzo, rischiamo di trasformare la nostra vita in una corsa ad ostacoli costruita da altri.


Il problema non è sognare in grande, ma farlo con sogni che non ci appartengono. 

Le aspettative non sono sempre un male: a volte ci spronano. 

Ma altre ci schiacciano, ci appesantiscono, ci allontanano da ciò che sentiamo davvero nostro. 

Finché non ci accorgiamo che rincorriamo traguardi che non ci danno alcuna gioia, solo stanchezza.


Liberarsi dal peso delle aspettative non è disinteressarsi. 

Ma riconoscere ciò che ha valore per noi. 

Significa tornare a sentire. Significa scegliere.

E forse, per la prima volta, vivere leggeri. Ma davvero.

mercoledì 28 maggio 2025

L’illusione del controllo

Viviamo cercando di controllare ogni aspetto della nostra esistenza.

 Il lavoro, il tempo, gli altri, perfino il futuro. 

Facciamo piani, impostiamo sveglie, compiliamo agende, scegliamo le nostre mosse con l’illusione che, così facendo, tutto andrà come deve.


Ma la realtà si diverte a ricordarci che il controllo totale è un’illusione. 

Possiamo fare del nostro meglio, certo, ma esistono variabili – imprevedibili, caotiche, spesso invisibili – che sfuggono a ogni nostro tentativo di gestione. 

Ed è proprio lì che risiedono l’imprevisto, la bellezza, la crescita.

Non significa vivere nel caos, ma accettare che l’ordine che cerchiamo è fragile, temporaneo, mai garantito. 

Il vero equilibrio nasce quando smettiamo di voler controllare tutto e impariamo a danzare con l’incertezza. 

Perché, paradossalmente, è proprio quando smettiamo di aggrapparci al controllo che iniziamo davvero a vivere.


Smettere di aspettare

 Aspettiamo il momento giusto per tutto.

Per cambiare lavoro, per dire quello che pensiamo, per iniziare a prenderci cura di noi stessi, o per iniziare ad investire. 

Aspettiamo di avere più tempo, più soldi, più coraggio. 

Aspettiamo che gli altri ci capiscano, ci supportino, ci riconoscano.


Ma la verità è che il momento perfetto non arriva quasi mai.

Come disse Confucio, il momento migliore per piantare un albero era vent'anni fa. Il secondo momento migliore è adesso.  

E quando finalmente sembra arrivare, scopriamo che nel frattempo siamo cambiati noi, o che è cambiato il mondo intorno a noi.


La vita non aspetta. 

Passa mentre pianifichiamo, mentre rinviamo, mentre ci raccontiamo che "non è ancora il momento". 

E così restiamo fermi, mentre il tempo cammina.

Chi agisce sbaglia, certo. Ma chi aspetta, spesso, perde.

Smettere di aspettare non significa agire d’impulso. 

Significa semplicemente smettere di rimandare se stessi.



Il tempo che buttiamo (e quello che ci potrebbe salvare)

Passiamo anni a cercare promozioni.

Rincorrendo stipendi leggermente più alti, spesso sacrificando momenti preziosi con la famiglia o con noi stessi. 

Ci adattiamo, ci si modella e ci si piega per compiacere capi e aziende che, nella maggior parte dei casi, potrebbero sostituirci in un attimo.


Eppure, non troviamo un’ora al mese per studiare come far lavorare i soldi per noi.

Viviamo in una società che premia la fatica apparente, e ignora l’intelligenza finanziaria. 

Accettiamo senza reagire che il nostro tempo venga comprato a basso costo, ma ci rifiutiamo di investire in conoscenze che potrebbero restituircelo, moltiplicato.


Il paradosso è evidente. 

Ci affanniamo per qualche euro in più in busta paga, mentre potremmo costruire libertà nel lungo termine, se solo iniziassimo a capire il valore del denaro e del tempo.

La vera ricchezza non è solo economica. È libertà. 

È scegliere cosa fare del proprio tempo. 

Ed è lì che, prima o poi, tutti torniamo a guardare.

Peccato che venga sempre capito troppo tardi

martedì 27 maggio 2025

Lavoriamo per vivere o viviamo per lavorare?

È un’epoca in cui la connessione è costante, e il lavoro spesso ci segue anche a casa 

Torna con forza una domanda antica, ma mai risolta: stiamo lavorando per vivere, o stiamo vivendo per lavorare?

Le ore lavorative si allungano silenziosamente. 

Non sempre nei contratti, ma nelle notifiche, nei pensieri, nei doveri che si infilano nei ritagli di tempo. 


Lavoriamo di più, spesso con l’illusione di “metterci avanti”, di “tenere il ritmo”, di “fare carriera”. 

Ma la carriera, oggi, corre così in fretta da lasciarci spesso indietro, svuotati.

A livello economico, i dati mostrano stipendi, in alcuni settori, in lieve crescita, ma contemporaneamente spese che lievitano, ritmi di vita che si accelerano, e un’inquieta rincorsa al riconoscimento sociale.


Spendiamo più di quanto guadagnamo.

Spesso per impressionare persone che non sono nemmeno davvero interessate a noi. 

In questo schema, il tempo libero diventa un lusso, la serenità un miraggio, la felicità un effetto collaterale raro.


È forse tempo di ripensare il significato di ricchezza.

Forse il vero benessere non è accumulare, ma vivere. Non dimostrare, ma scegliere.

Forse la domanda giusta non è quanto guadagnamo.

Ma quanto ci resta, di tempo e di noi stessi, una volta spenta l’ultima notifica.


Il bisogno di approvazione ci sta rubando l’identità...e i soldi

Viviamo in un’epoca in cui la visibilità sembra essere tutto. 

Ogni giorno siamo esposti, commentati, giudicati. 

E allora iniziamo a chiederci non tanto chi siamo, ma come appariamo. 

E peggio ancora: piacciamo abbastanza?


Il bisogno di approvazione sta lentamente scolorendo i contorni delle nostre identità

Cerchiamo il consenso ovunque: nei social, nei gruppi di amici, persino nelle scelte personali che dovrebbero riguardare solo noi.

Per paura di deludere o restare esclusi, iniziamo ad adattarci, a modellare i nostri gusti, le nostre opinioni, perfino i nostri sogni.

Ma più ci adattiamo, più ci allontaniamo da noi stessi.


Rinunciamo alla nostra autenticità in cambio di un effimero “mi piace”.

Eppure, l’approvazione è una moneta instabile. 

Basta un commento negativo o un mancato riscontro per farci crollare. 

È una droga che non sazia mai, perché la fame di consenso è insaziabile.


Così finiamo per vivere in funzione dello sguardo altrui. 

Dimenticando che il nostro valore non dovrebbe dipendere da quanti ci applaudono, ma da quanto siamo fedeli a noi stessi.

Il paradosso è che spesso, per ottenere questa effimera approvazione, ci indebitiamo psicologicamente — e non solo.

Spendiamo soldi in abiti, accessori, auto, vacanze e status symbol che non ci servono, ma servono a impressionare chi, in fondo, non è minimamente interessato a noi.


È la trappola perfetta del consumismo. 

Compriamo ciò che non ci serve, per sembrare ciò che non siamo, a persone che non ci vedono davvero.

Essere autentici richiede coraggio.

Ci espone a critiche, incomprensioni, solitudine temporanea.

Ma è l’unico modo per costruire un’identità solida, reale. 


Un’identità che non ha bisogno di essere approvata per essere vissuta.

Essere sé stessi oggi è un atto rivoluzionario.

E rivoluzionari, a volte, bisogna decidere di esserlo.


Contro la dittatura della fretta: il valore della lentezza

Viviamo immersi in una cultura dell’urgenza 

Tutto dev’essere veloce: le risposte, i risultati, le emozioni. 

Ma proprio questa frenesia ci svuota, ci disconnette da noi stessi e dagli altri. 

La lentezza, invece, è un atto anti-sistemico, che ci permette di vivere meglio, capire di più e fare scelte più vere.

Il rumore del silenzio è rivoluzionario

Viviamo in un’epoca in cui il rumore è costante. 

Le notifiche, le opinioni, i talk show, le polemiche social, l’ansia di dire qualcosa su tutto. 

Ogni giorno siamo travolti da parole, molte delle quali inutili, ripetitive, stonate.


In questo caos, il silenzio diventa un atto rivoluzionario.

Scegliere il silenzio, oggi, significa sottrarsi al frastuono dell’ego, dell’apparenza, della reazione impulsiva. 

Significa pensare prima di parlare, ascoltare davvero, osservare senza la fretta di commentare.

Il silenzio non è debolezza. È forza. È consapevolezza. È lucidità.


A volte, i cambiamenti più profondi non partono da un proclama, ma da un istante di raccoglimento. 

È nel silenzio che si trovano le idee più chiare, le emozioni più autentiche, le decisioni più vere.

In un mondo che urla, chi ha il coraggio di tacere e riflettere è un rivoluzionario.



lunedì 26 maggio 2025

L’ignoranza è costosa

“L’ignoranza è costosa”, disse Warren Buffett. 

E, come spesso accade con le sue frasi, non c’è bisogno di aggiungere molto altro.

Viviamo in un’epoca in cui la conoscenza è potenzialmente accessibile come mai prima. 


Manuali, corsi, video, articoli.

Abbiamo a disposizione una biblioteca infinita nel palmo della mano. 

Eppure, troppe persone restano ignoranti – nel senso letterale del termine – per scelta, per abitudine, o peggio, per pigrizia.


Non sapere non è più un destino. 

È una scelta. E quella scelta si paga cara.

Nel mondo finanziario, ad esempio, l’ignoranza porta a spendere troppo, a investire male, a indebitarsi per ciò che non serve. 


Ma non si tratta solo di soldi.

È costosa anche l’ignoranza emotiva, quella culturale, quella storica. 

L’ignoranza porta a relazioni sbagliate, voti sbagliati, decisioni sbagliate.

Buffett ci ricorda che, a differenza della cultura, l’ignoranza non è mai gratuita. 

Il conto arriva sempre. E con gli interessi.



Il paradosso del benessere apparente

Viviamo nell’epoca dell’abbondanza. 

Tutto è a portata di mano: tecnologia, intrattenimento, comodità, beni di consumo. 

Possiamo ordinare un pasto da uno smartphone, vedere il mondo da uno schermo, comunicare in tempo reale con chiunque. 

Eppure, mai come oggi ci sentiamo svuotati, inquieti, a tratti persi.


È il paradosso del benessere apparente

Possediamo molto, ma siamo colmi di inquietudine. 

Abbiamo più opzioni, ma meno direzioni. 

Più cose, meno senso. 


L'infelicità moderna non nasce dalla mancanza, ma dall'eccesso. 

Un eccesso che disorienta, confonde, paralizza. 

I social alimentano il confronto, l'insoddisfazione e la sensazione costante di essere in ritardo o inadeguati.


Viviamo per mostrare, non per sentire. 

Sorridiamo per le foto, ma piangiamo in silenzio. 

Spendiamo per apparire, non per costruire. 

Ci perdiamo nel superfluo e ci dimentichiamo dell’essenziale.


Questo benessere ci ha resi più fragili, più confusi, meno liberi. 

Abbiamo scambiato il comfort con la felicità, la comodità con la realizzazione. 

E ci stiamo accorgendo, piano piano, che non funzionerà.


Serve tornare a un’idea semplice: la qualità della vita non si misura in giga, follower o brand. Ma in silenzi veri, relazioni autentiche e scelte consapevoli. Forse la vera ricchezza è proprio quella che non si può acquistare.



La povertà che non fa rumore

Esiste una povertà silenziosa, discreta, invisibile. 

Non urla, non si esibisce, non fa notizia. 

È la povertà di chi lavora e non arriva a fine mese, di chi rinuncia a una visita medica, di chi spegne il riscaldamento prima del tempo, o salta un pasto perché “tanto non ho fame”.


È una povertà che non fa rumore, perché spesso si accompagna alla vergogna. 

Si nasconde dietro una parvenza di normalità, dietro un vestito stirato, un sorriso educato, una casa dignitosa. 

Ma dentro ha la fatica quotidiana, il calcolo preciso delle spese, il peso delle rinunce.


Eppure è la povertà più diffusa. 

Non è quella estrema che ci colpisce con le sue immagini forti, ma è altrettanto reale. 

Solo che non la vediamo. O peggio: non vogliamo vederla.


Raccontare questa povertà è un dovere morale. 

Perché se non la nominiamo, non esiste. 

E se non esiste, nessuno si sentirà in dovere di combatterla.


Il problema non è il lunedì. È come viviamo il weekend.

Ogni lunedì mattina migliaia di persone si svegliano con lo stesso pensiero.

 “Odio il lunedì”. 

Ma siamo sicuri che sia davvero lui il problema?


Forse, il vero nodo sta nei due giorni precedenti. 

Se il weekend è una fuga sregolata, una rincorsa spasmodica alla distrazione, allo sballo o al vuoto, il lunedì sarà inevitabilmente un trauma. 

Ma se quei giorni diventano tempo di qualità – riposo, relazioni vere, piccoli piaceri consapevoli – allora anche il lunedì sarà più leggero.


In fondo, il lunedì non è altro che uno specchio. 

Riflette il nostro equilibrio, o la nostra fuga. 

Se lo detestiamo, forse dovremmo chiederci: come sto vivendo il mio tempo libero?

Il lunedì non è il nemico. È solo il risultato.

domenica 25 maggio 2025

Il prezzo dell’informazione: gratis ma pilotata

Viviamo nell’epoca dell’informazione gratuita. 

Tutto è accessibile, ovunque, a qualsiasi ora. 

Ma come ci ricorda spesso lo psichiatra Paolo Crepet, “solo le banalità sono gratis”. 

E allora vale la pena chiedersi: "quanto ci costa davvero l'informazione che riceviamo ogni giorno?"


La risposta è più inquietante di quanto sembri. 

Il costo è la qualità, l’autonomia di pensiero, il senso critico. 

In un mondo inondato da notizie rapide, titoli acchiappa-click e verità preconfezionate, si rischia di accettare tutto senza filtrare nulla. 


L'informazione, anche se formalmente gratuita, è sempre filtrata, indirizzata. 

Spesso progettata per suscitare emozioni più che riflessioni.

E chi è disposto a pagare, magari con il proprio tempo o denaro, per cercare fonti autentiche, indipendenti, approfondite? 

Pochi. Ma quei pochi sono sempre più consapevoli.


L’informazione è un bene prezioso

Non dovrebbe mai essere scelta sulla base del prezzo, ma sulla base del contenuto. 

Altrimenti finiremo per credere che la verità sia solo quella che ci viene servita senza fatica. 

E in quel caso, non sarà più verità: sarà solo una narrazione comoda.



Violenza in Italia: un'emergenza che ci riguarda tutti

In Italia, la violenza non è solo una questione di cronaca.

È un fenomeno strutturale che coinvolge donne, giovani e intere comunità. 

I dati più recenti dipingono un quadro allarmante, che non possiamo più ignorare.


Violenza sulle donne: numeri che fanno male

Nel 2024, 113 donne sono state uccise, di cui 99 in ambito familiare o affettivo.  

Di queste, 61 hanno trovato la morte per mano del partner o dell'ex partner.  

Il numero di pubblica utilità 1522, ha registrato, nel quarto trimestre del 2024, che il 72,9% delle vittime non denuncia la violenza subita alle autorità competenti.  

Le principali ragioni, di questa mancata denuncia, sono la paura e il timore delle reazioni dell'autore, che riguardano il 38,5% dei casi.  


Giovani e violenza: una generazione in crisi

Il 40,6% dei ragazzi, tra i 15 e i 19 anni, ha partecipato almeno una volta a zuffe o risse.  

Inoltre, il 10,9% ha assistito a scene di violenza filmate con un cellulare, segno che questi episodi vengono non solo visti, ma spesso condivisi e amplificati digitalmente, contribuendo a una sorta di “normalizzazione” della violenza.  

Secondo un'indagine condotta da Differenza Donna, il 39% dei giovani, tra i 14 e i 21 anni, ha dichiarato di aver subito violenza, con picchi tra le persone non binarie (55%) e le ragazze (43%).  

Il 30% dei giovani crede che la gelosia sia una dimostrazione d'amore, percentuale che sale al 45% tra i 14-15enni.  


Una responsabilità collettiva?

Personalmente non ritengo giusto dovermi prendere in carico questo tipo di problema, ma questi dati ci obbligano a riflettere su cosa stia accadendo nella nostra società. 

La violenza non è un problema isolato, ma un sintomo di disfunzioni più profonde: educative, culturali, sociali. 

È tempo di agire con decisione, sia promuovendo l'educazione al rispetto, sia sostenendo le vittime, sia  lavorando per una cultura che rifiuti ogni forma di violenza.

E, ultimo ma non ultimo, punendo in modo esemplare il trasgressore.

La scorciatoia del giudizio

Viviamo in un’epoca in cui tutto è esposto, immediato, superficiale. 

E in questa corsa alla sintesi abbiamo imparato a giudicare prima ancora di capire. 

Bastano due righe, una foto, un gesto. 

Il contesto? Superfluo. L’intenzione? Irrilevante.


Il giudizio è diventato una scorciatoia comoda, ma pericolosa. 

Ci illude di avere il controllo, di saper distinguere subito il “giusto” dallo “sbagliato”. 

Ma nella maggior parte dei casi è solo un riflesso automatico, un atto di pigrizia mentale.


Forse sarebbe più utile rallentare. 

Chiederci cosa ci manca per capire davvero. 

Accettare che la verità, a volte, è più scomoda della nostra opinione.

L'eleganza della costanza

Ci affascinano i colpi di genio.

I momenti di gloria, i grandi cambiamenti improvvisi. 

Ma la verità è che la vita si costruisce nella ripetizione.


È nella disciplina silenziosa delle piccole abitudini che nasce la vera forza. 

Non c’è nulla di spettacolare nel ripetere ogni giorno un gesto semplice, ma è proprio lì che si cela l’eleganza: nella coerenza, nella pazienza, nella volontà che non cerca applausi.

Non servono fuochi d’artificio per diventare migliori. 

Serve costanza. 

Quella che lavora nell’ombra e che, col tempo, disegna la luce.

sabato 24 maggio 2025

Bravi a farci gli affari altrui, pessimi a fare i nostri interessi

Circa 48 ore fa, Bitcoin ha ritoccato il proprio massimo storico, sfiorando i 112.000 dollari.

Un evento epocale, simbolico, che avrebbe dovuto far discutere chiunque abbia a cuore il futuro economico, l’innovazione finanziaria, la libertà individuale.

E invece? Silenzio.

Google Trends, meravigliosamente obiettivo ed impietoso come sempre, tace. 

Nessuna impennata d'interesse. 


In Italia men che meno, l'attenzione pubblica era focalizzata su ben altro,  considerato evidentemente più importante.

Sui risultati delle partite di calcio e sulle polemiche infinite da bar sport. 

E sull’omicidio di Garlasco — tornato inspiegabilmente a dominare le cronache a quasi vent’anni di distanza.


Ci piace farci gli affari degli altri

Scavare nella vita e nella morte altrui, commentare ciò che non ci riguarda. 

Prostituzione della tragedia! Così lo chiamo questo tipo di interesse mediatico.


Ma quando si tratta di capire cosa può davvero impattare sulle nostre vite — come il cambiamento silenzioso ma dirompente dell’economia digitale — semplicemente, non ci siamo.

Forse è più comodo così. 

Forse è più facile distrarsi piuttosto che studiare, e indignarsi piuttosto che capire.

Peccato solo che, a forza di farci i fatti altrui, finiamo per non saper più fare i nostri interessi.


La disinformazione selettiva

Non servono più le menzogne. 

Basta raccontare solo una parte.

Un dettaglio sì, un altro no. 

Una fonte autorevole, un’altra screditata. 

Una notizia spinta ovunque, un’altra fatta sparire.


È così che oggi si crea la verità: selezionando.

Disinformazione selettiva: il modo più raffinato e pericoloso di manipolare.

Perché non ti accorgi nemmeno che ti manca un pezzo. 

Anzi, sei convinto di essere informato.


Ti indigni, prendi posizione, giudichi... ma sulla base di una narrazione che altri hanno confezionato per te.

In questo rumore assordante di verità parziali, forse la scelta più coraggiosa — e saggia — è fermarsi e chiedersi:

Sto cercando la verità, o solo conferme alla mia?

Perché a volte, crescere significa accettare che ciò in cui crediamo… potrebbe anche non bastare più.