Una volta la casa era rifugio.
Oggi, troppo spesso, è narcosi. Ci chiudiamo dentro pensando di proteggerci dal mondo, e invece ci isoliamo da noi stessi.
Non è solo una questione architettonica, ma culturale.
Le abitazioni moderne – specialmente nei contesti urbani – sono pensate per sedare, non per stimolare.
TV sempre accesa, assistenti vocali che completano le frasi, climatizzatori che rendono ogni stagione uguale all’altra.
Le finestre restano chiuse, il silenzio è bandito, la solitudine coperta dal rumore di fondo.
E intanto, fuori, il mondo cambia. Ma noi non ce ne accorgiamo.
Paolo Crepet lo dice chiaramente: “Chi non esce più di casa ha smesso di cercare”.
E in effetti, ci stiamo spegnendo nella comodità.
Pensiamo che il benessere sia assenza di stimoli, che la tranquillità sia assenza di conflitti.
Invece, dice Crepet, “la vita vera è fatta di inciampi, di errori, di passioni”.
Ma se eviti tutto questo, se resti dentro, se ti fai bastare il telecomando e il food delivery, non vivi: sopravvivi.
La casa diventa una culla ovattata dove tutto è sotto controllo.
Un luogo dove anestetizzare le emozioni, rinviare le decisioni, disconnettersi dalla realtà.
Ci sediamo sul divano dopo giornate fatte di iper connessione e corse a vuoto, e lo chiamiamo “relax”.
In realtà, spesso è solo stanchezza travestita.
E mentre i dispositivi ci coccolano e le app ci leggono nel pensiero, perdiamo la capacità di scegliere.
E di pensare. Perché chi si abitua a non uscire – non solo di casa, ma da sé – finisce per non distinguere più tra il comfort e la prigione.
“L’abitudine è una droga potentissima”, dice ancora Crepet.
Ci si abitua a tutto, anche all’assenza di vita.
Anche al fatto che fuori piove, che il vicino fa rumore, che il mondo ti sfida. Eppure è proprio lì che si cresce, non nel bozzolo che chiamiamo casa.
Siamo davvero sicuri che “stare bene” significhi non sentire più niente?
Nessun commento:
Posta un commento