Siamo ovunque, tranne che qui.
Le notifiche ci chiamano, gli aggiornamenti ci rincorrono, i feed scorrono.
Viviamo in un eterno presente digitale, che ci ruba la presenza reale.
La connessione perenne, da promessa di libertà, è diventata una nuova forma di dipendenza.
Non riusciamo più a stare fermi, né soli, né in silenzio.
Ogni attimo di vuoto dev’essere riempito da uno schermo, da un input, da una voce virtuale.
La cosa più rivoluzionaria oggi non è l’iperconnessione, ma il contrario: scollegarsi.
Stare in silenzio. Guardare negli occhi. Ritrovare l’autenticità nei gesti semplici, non filtrati.
Eppure, ogni volta che ci proviamo, sentiamo l’astinenza.
È l’ansia da disconnessione, un vuoto che ci mette a nudo.
Un tempo si diceva “il silenzio è d’oro”, oggi sembra quasi una minaccia.
Ma se non riusciamo a essere presenti nel momento che viviamo, in che vita siamo immersi davvero?
Viviamo un’epoca dove il rumore è diventato la normalità. Ma forse il vero coraggio è spegnere. Tacere. Ascoltare.
Perché la presenza, quella vera, non ha bisogno di Wi-Fi
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