Un tempo ci si incontrava in piazza.
Si discuteva, ci si accalorava, ci si confrontava. Le idee rimbalzavano vive tra i corpi, tra i volti, tra gli sguardi. Le mani si stringevano, le parole si urlavano o si sussurravano, ma erano vere, tangibili.
Oggi la piazza è diventata uno schermo. E se da una parte ci siamo illusi di aver abbattuto le distanze, dall’altra abbiamo costruito recinti invisibili che ci tengono lontani come mai prima.
I social ci hanno promesso dialogo, ma ci hanno consegnato monologhi.
Ogni profilo è un palco, ogni post una recita. Ognuno parla, nessuno ascolta davvero.
Le vecchie piazze erano lente, faticose, a volte scomode, ma erano reali.
Oggi ci basta un click per “bloccare”, per “ignorare”, per evitare lo scontro. Così ci troviamo chiusi in bolle ideologiche dove leggiamo solo ciò che conferma ciò che già pensiamo.
Un tempo, in piazza, ti trovavi accanto chi non la pensava come te.
Dovevi farci i conti. Ora, l’algoritmo ti fa credere di essere la maggioranza, anche quando non lo sei.
E ogni voce dissonante viene silenziata non con un confronto, ma con un gesto del pollice. Un click, un tap, una scrollata. E tutto sparisce.
Pasolini già lo intuiva: temeva la televisione perché pensava che avrebbe omologato le coscienze.
Ma nemmeno lui poteva immaginare quanto l’omologazione sarebbe potuta diventare così capillare e volontaria, con ogni utente che si costruisce la sua personale prigione di conferme e like.
La piazza digitale non è neutra.
È progettata per eccitare, per dividere, per monetizzare le nostre reazioni.
Non ci stimola a pensare, ma a reagire. E più velocemente reagiamo, meno riflettiamo. Così, nella società della connessione perpetua, l’isolamento cresce. E il confronto si estingue.
L’ultima piazza è diventata uno schermo.
Ci riflette, ma non ci unisce. Ci mostra, ma non ci rivela.
Forse è tempo di spegnere tutto, uscire di casa, tornare a camminare a passo lento verso una piazza vera. Dove, magari, non troveremo tutti d’accordo, ma almeno troveremo qualcuno che ci ascolta.
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