Ogni trimestre porta con sé bollettini trionfali: crescita del PIL, ripresa dei consumi, fiducia delle imprese in rialzo.
I comunicati e le prime pagine dei giornali sembrano orchestrare un unico spartito: “Va tutto bene, o comunque abbastanza bene da non lamentarsi troppo”.
Ma mentre i numeri sorridono nelle slide, dai supermercati si esce con carrelli sempre più vuoti,, nei contratti precari si moltiplica l’incertezza, e nei sogni delle nuove generazioni si fa strada una parola che un tempo era un’eccezione e ora è la regola: rinuncia (oppure il sogno di essere il prossimo famoso influencer).
Le realtà, che vivono molti cittadini, sono l’opposto della narrazione ottimistica.
I salari non crescono da anni, il potere d’acquisto diminuisce mese dopo mese, e il ceto medio si assottiglia fino quasi a scomparire.
Le famiglie, che una volta risparmiavano, ora si indebitano per restare a galla, mentre il credito al consumo – anche a tassi esorbitanti – diventa l’unico ossigeno per chi vuol far fronte a spese primarie (e talvolta anche a quelle che non lo sono).
Nel frattempo, i media, fanno la loro parte.
Le voci fuori dal coro vengono silenziate con ironia, o etichettate come disfattiste.
E in tutto questo, a emergere, è un paese in cui il benessere è sempre più virtuale, e la sofferenza sempre più reale ma invisibile.
Pasolini, in un’intervista del 1975, disse: “Il vero fascismo è la riduzione dell’uomo a consumatore.”
Aveva capito, con largo anticipo, che la vera dittatura non sarebbe più passata attraverso manganelli e stivali, ma attraverso vetrine e spot.
Ci illudono di vivere nel paese delle possibilità, mentre ci rendono incapaci (anche per nostra colpa, ammettiamolo!) di immaginare alternative.
La ripresa, forse, c’è davvero. Ma è selettiva, ingiusta, opaca. Non piove su tutti: si concentra in cima, mentre in basso si lotta per l’illusione di starci ancora dentro.
E alla fine, quando anche l’ultimo stipendio si sarà polverizzato nel mutuo e nella spesa, basterà un altro annuncio in prima serata per convincerci che sì, va tutto bene.
E che se non lo è, dev’essere colpa nostra.