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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

giovedì 29 maggio 2025

Il peso delle aspettative

 Ciao socio!

Ecco l’articolo per le 21:00, dal titolo "Il peso Cresciamo con addosso aspettative che spesso non abbiamo scelto.

Quelle della famiglia, della scuola, della società. 

Ci dicono chi dovremmo essere, cosa dovremmo ottenere, in quanto tempo e in quale modo. 

E così, pezzo dopo pezzo, rischiamo di trasformare la nostra vita in una corsa ad ostacoli costruita da altri.


Il problema non è sognare in grande, ma farlo con sogni che non ci appartengono. 

Le aspettative non sono sempre un male: a volte ci spronano. 

Ma altre ci schiacciano, ci appesantiscono, ci allontanano da ciò che sentiamo davvero nostro. 

Finché non ci accorgiamo che rincorriamo traguardi che non ci danno alcuna gioia, solo stanchezza.


Liberarsi dal peso delle aspettative non è disinteressarsi. 

Ma riconoscere ciò che ha valore per noi. 

Significa tornare a sentire. Significa scegliere.

E forse, per la prima volta, vivere leggeri. Ma davvero.

mercoledì 28 maggio 2025

L’illusione del controllo

Viviamo cercando di controllare ogni aspetto della nostra esistenza.

 Il lavoro, il tempo, gli altri, perfino il futuro. 

Facciamo piani, impostiamo sveglie, compiliamo agende, scegliamo le nostre mosse con l’illusione che, così facendo, tutto andrà come deve.


Ma la realtà si diverte a ricordarci che il controllo totale è un’illusione. 

Possiamo fare del nostro meglio, certo, ma esistono variabili – imprevedibili, caotiche, spesso invisibili – che sfuggono a ogni nostro tentativo di gestione. 

Ed è proprio lì che risiedono l’imprevisto, la bellezza, la crescita.

Non significa vivere nel caos, ma accettare che l’ordine che cerchiamo è fragile, temporaneo, mai garantito. 

Il vero equilibrio nasce quando smettiamo di voler controllare tutto e impariamo a danzare con l’incertezza. 

Perché, paradossalmente, è proprio quando smettiamo di aggrapparci al controllo che iniziamo davvero a vivere.


Smettere di aspettare

 Aspettiamo il momento giusto per tutto.

Per cambiare lavoro, per dire quello che pensiamo, per iniziare a prenderci cura di noi stessi, o per iniziare ad investire. 

Aspettiamo di avere più tempo, più soldi, più coraggio. 

Aspettiamo che gli altri ci capiscano, ci supportino, ci riconoscano.


Ma la verità è che il momento perfetto non arriva quasi mai.

Come disse Confucio, il momento migliore per piantare un albero era vent'anni fa. Il secondo momento migliore è adesso.  

E quando finalmente sembra arrivare, scopriamo che nel frattempo siamo cambiati noi, o che è cambiato il mondo intorno a noi.


La vita non aspetta. 

Passa mentre pianifichiamo, mentre rinviamo, mentre ci raccontiamo che "non è ancora il momento". 

E così restiamo fermi, mentre il tempo cammina.

Chi agisce sbaglia, certo. Ma chi aspetta, spesso, perde.

Smettere di aspettare non significa agire d’impulso. 

Significa semplicemente smettere di rimandare se stessi.



Il tempo che buttiamo (e quello che ci potrebbe salvare)

Passiamo anni a cercare promozioni.

Rincorrendo stipendi leggermente più alti, spesso sacrificando momenti preziosi con la famiglia o con noi stessi. 

Ci adattiamo, ci si modella e ci si piega per compiacere capi e aziende che, nella maggior parte dei casi, potrebbero sostituirci in un attimo.


Eppure, non troviamo un’ora al mese per studiare come far lavorare i soldi per noi.

Viviamo in una società che premia la fatica apparente, e ignora l’intelligenza finanziaria. 

Accettiamo senza reagire che il nostro tempo venga comprato a basso costo, ma ci rifiutiamo di investire in conoscenze che potrebbero restituircelo, moltiplicato.


Il paradosso è evidente. 

Ci affanniamo per qualche euro in più in busta paga, mentre potremmo costruire libertà nel lungo termine, se solo iniziassimo a capire il valore del denaro e del tempo.

La vera ricchezza non è solo economica. È libertà. 

È scegliere cosa fare del proprio tempo. 

Ed è lì che, prima o poi, tutti torniamo a guardare.

Peccato che venga sempre capito troppo tardi

martedì 27 maggio 2025

Lavoriamo per vivere o viviamo per lavorare?

È un’epoca in cui la connessione è costante, e il lavoro spesso ci segue anche a casa 

Torna con forza una domanda antica, ma mai risolta: stiamo lavorando per vivere, o stiamo vivendo per lavorare?

Le ore lavorative si allungano silenziosamente. 

Non sempre nei contratti, ma nelle notifiche, nei pensieri, nei doveri che si infilano nei ritagli di tempo. 


Lavoriamo di più, spesso con l’illusione di “metterci avanti”, di “tenere il ritmo”, di “fare carriera”. 

Ma la carriera, oggi, corre così in fretta da lasciarci spesso indietro, svuotati.

A livello economico, i dati mostrano stipendi, in alcuni settori, in lieve crescita, ma contemporaneamente spese che lievitano, ritmi di vita che si accelerano, e un’inquieta rincorsa al riconoscimento sociale.


Spendiamo più di quanto guadagnamo.

Spesso per impressionare persone che non sono nemmeno davvero interessate a noi. 

In questo schema, il tempo libero diventa un lusso, la serenità un miraggio, la felicità un effetto collaterale raro.


È forse tempo di ripensare il significato di ricchezza.

Forse il vero benessere non è accumulare, ma vivere. Non dimostrare, ma scegliere.

Forse la domanda giusta non è quanto guadagnamo.

Ma quanto ci resta, di tempo e di noi stessi, una volta spenta l’ultima notifica.


Il bisogno di approvazione ci sta rubando l’identità...e i soldi

Viviamo in un’epoca in cui la visibilità sembra essere tutto. 

Ogni giorno siamo esposti, commentati, giudicati. 

E allora iniziamo a chiederci non tanto chi siamo, ma come appariamo. 

E peggio ancora: piacciamo abbastanza?


Il bisogno di approvazione sta lentamente scolorendo i contorni delle nostre identità

Cerchiamo il consenso ovunque: nei social, nei gruppi di amici, persino nelle scelte personali che dovrebbero riguardare solo noi.

Per paura di deludere o restare esclusi, iniziamo ad adattarci, a modellare i nostri gusti, le nostre opinioni, perfino i nostri sogni.

Ma più ci adattiamo, più ci allontaniamo da noi stessi.


Rinunciamo alla nostra autenticità in cambio di un effimero “mi piace”.

Eppure, l’approvazione è una moneta instabile. 

Basta un commento negativo o un mancato riscontro per farci crollare. 

È una droga che non sazia mai, perché la fame di consenso è insaziabile.


Così finiamo per vivere in funzione dello sguardo altrui. 

Dimenticando che il nostro valore non dovrebbe dipendere da quanti ci applaudono, ma da quanto siamo fedeli a noi stessi.

Il paradosso è che spesso, per ottenere questa effimera approvazione, ci indebitiamo psicologicamente — e non solo.

Spendiamo soldi in abiti, accessori, auto, vacanze e status symbol che non ci servono, ma servono a impressionare chi, in fondo, non è minimamente interessato a noi.


È la trappola perfetta del consumismo. 

Compriamo ciò che non ci serve, per sembrare ciò che non siamo, a persone che non ci vedono davvero.

Essere autentici richiede coraggio.

Ci espone a critiche, incomprensioni, solitudine temporanea.

Ma è l’unico modo per costruire un’identità solida, reale. 


Un’identità che non ha bisogno di essere approvata per essere vissuta.

Essere sé stessi oggi è un atto rivoluzionario.

E rivoluzionari, a volte, bisogna decidere di esserlo.


Contro la dittatura della fretta: il valore della lentezza

Viviamo immersi in una cultura dell’urgenza 

Tutto dev’essere veloce: le risposte, i risultati, le emozioni. 

Ma proprio questa frenesia ci svuota, ci disconnette da noi stessi e dagli altri. 

La lentezza, invece, è un atto anti-sistemico, che ci permette di vivere meglio, capire di più e fare scelte più vere.

Il rumore del silenzio è rivoluzionario

Viviamo in un’epoca in cui il rumore è costante. 

Le notifiche, le opinioni, i talk show, le polemiche social, l’ansia di dire qualcosa su tutto. 

Ogni giorno siamo travolti da parole, molte delle quali inutili, ripetitive, stonate.


In questo caos, il silenzio diventa un atto rivoluzionario.

Scegliere il silenzio, oggi, significa sottrarsi al frastuono dell’ego, dell’apparenza, della reazione impulsiva. 

Significa pensare prima di parlare, ascoltare davvero, osservare senza la fretta di commentare.

Il silenzio non è debolezza. È forza. È consapevolezza. È lucidità.


A volte, i cambiamenti più profondi non partono da un proclama, ma da un istante di raccoglimento. 

È nel silenzio che si trovano le idee più chiare, le emozioni più autentiche, le decisioni più vere.

In un mondo che urla, chi ha il coraggio di tacere e riflettere è un rivoluzionario.



lunedì 26 maggio 2025

L’ignoranza è costosa

“L’ignoranza è costosa”, disse Warren Buffett. 

E, come spesso accade con le sue frasi, non c’è bisogno di aggiungere molto altro.

Viviamo in un’epoca in cui la conoscenza è potenzialmente accessibile come mai prima. 


Manuali, corsi, video, articoli.

Abbiamo a disposizione una biblioteca infinita nel palmo della mano. 

Eppure, troppe persone restano ignoranti – nel senso letterale del termine – per scelta, per abitudine, o peggio, per pigrizia.


Non sapere non è più un destino. 

È una scelta. E quella scelta si paga cara.

Nel mondo finanziario, ad esempio, l’ignoranza porta a spendere troppo, a investire male, a indebitarsi per ciò che non serve. 


Ma non si tratta solo di soldi.

È costosa anche l’ignoranza emotiva, quella culturale, quella storica. 

L’ignoranza porta a relazioni sbagliate, voti sbagliati, decisioni sbagliate.

Buffett ci ricorda che, a differenza della cultura, l’ignoranza non è mai gratuita. 

Il conto arriva sempre. E con gli interessi.



Il paradosso del benessere apparente

Viviamo nell’epoca dell’abbondanza. 

Tutto è a portata di mano: tecnologia, intrattenimento, comodità, beni di consumo. 

Possiamo ordinare un pasto da uno smartphone, vedere il mondo da uno schermo, comunicare in tempo reale con chiunque. 

Eppure, mai come oggi ci sentiamo svuotati, inquieti, a tratti persi.


È il paradosso del benessere apparente

Possediamo molto, ma siamo colmi di inquietudine. 

Abbiamo più opzioni, ma meno direzioni. 

Più cose, meno senso. 


L'infelicità moderna non nasce dalla mancanza, ma dall'eccesso. 

Un eccesso che disorienta, confonde, paralizza. 

I social alimentano il confronto, l'insoddisfazione e la sensazione costante di essere in ritardo o inadeguati.


Viviamo per mostrare, non per sentire. 

Sorridiamo per le foto, ma piangiamo in silenzio. 

Spendiamo per apparire, non per costruire. 

Ci perdiamo nel superfluo e ci dimentichiamo dell’essenziale.


Questo benessere ci ha resi più fragili, più confusi, meno liberi. 

Abbiamo scambiato il comfort con la felicità, la comodità con la realizzazione. 

E ci stiamo accorgendo, piano piano, che non funzionerà.


Serve tornare a un’idea semplice: la qualità della vita non si misura in giga, follower o brand. Ma in silenzi veri, relazioni autentiche e scelte consapevoli. Forse la vera ricchezza è proprio quella che non si può acquistare.



La povertà che non fa rumore

Esiste una povertà silenziosa, discreta, invisibile. 

Non urla, non si esibisce, non fa notizia. 

È la povertà di chi lavora e non arriva a fine mese, di chi rinuncia a una visita medica, di chi spegne il riscaldamento prima del tempo, o salta un pasto perché “tanto non ho fame”.


È una povertà che non fa rumore, perché spesso si accompagna alla vergogna. 

Si nasconde dietro una parvenza di normalità, dietro un vestito stirato, un sorriso educato, una casa dignitosa. 

Ma dentro ha la fatica quotidiana, il calcolo preciso delle spese, il peso delle rinunce.


Eppure è la povertà più diffusa. 

Non è quella estrema che ci colpisce con le sue immagini forti, ma è altrettanto reale. 

Solo che non la vediamo. O peggio: non vogliamo vederla.


Raccontare questa povertà è un dovere morale. 

Perché se non la nominiamo, non esiste. 

E se non esiste, nessuno si sentirà in dovere di combatterla.


Il problema non è il lunedì. È come viviamo il weekend.

Ogni lunedì mattina migliaia di persone si svegliano con lo stesso pensiero.

 “Odio il lunedì”. 

Ma siamo sicuri che sia davvero lui il problema?


Forse, il vero nodo sta nei due giorni precedenti. 

Se il weekend è una fuga sregolata, una rincorsa spasmodica alla distrazione, allo sballo o al vuoto, il lunedì sarà inevitabilmente un trauma. 

Ma se quei giorni diventano tempo di qualità – riposo, relazioni vere, piccoli piaceri consapevoli – allora anche il lunedì sarà più leggero.


In fondo, il lunedì non è altro che uno specchio. 

Riflette il nostro equilibrio, o la nostra fuga. 

Se lo detestiamo, forse dovremmo chiederci: come sto vivendo il mio tempo libero?

Il lunedì non è il nemico. È solo il risultato.

domenica 25 maggio 2025

Il prezzo dell’informazione: gratis ma pilotata

Viviamo nell’epoca dell’informazione gratuita. 

Tutto è accessibile, ovunque, a qualsiasi ora. 

Ma come ci ricorda spesso lo psichiatra Paolo Crepet, “solo le banalità sono gratis”. 

E allora vale la pena chiedersi: "quanto ci costa davvero l'informazione che riceviamo ogni giorno?"


La risposta è più inquietante di quanto sembri. 

Il costo è la qualità, l’autonomia di pensiero, il senso critico. 

In un mondo inondato da notizie rapide, titoli acchiappa-click e verità preconfezionate, si rischia di accettare tutto senza filtrare nulla. 


L'informazione, anche se formalmente gratuita, è sempre filtrata, indirizzata. 

Spesso progettata per suscitare emozioni più che riflessioni.

E chi è disposto a pagare, magari con il proprio tempo o denaro, per cercare fonti autentiche, indipendenti, approfondite? 

Pochi. Ma quei pochi sono sempre più consapevoli.


L’informazione è un bene prezioso

Non dovrebbe mai essere scelta sulla base del prezzo, ma sulla base del contenuto. 

Altrimenti finiremo per credere che la verità sia solo quella che ci viene servita senza fatica. 

E in quel caso, non sarà più verità: sarà solo una narrazione comoda.



Violenza in Italia: un'emergenza che ci riguarda tutti

In Italia, la violenza non è solo una questione di cronaca.

È un fenomeno strutturale che coinvolge donne, giovani e intere comunità. 

I dati più recenti dipingono un quadro allarmante, che non possiamo più ignorare.


Violenza sulle donne: numeri che fanno male

Nel 2024, 113 donne sono state uccise, di cui 99 in ambito familiare o affettivo.  

Di queste, 61 hanno trovato la morte per mano del partner o dell'ex partner.  

Il numero di pubblica utilità 1522, ha registrato, nel quarto trimestre del 2024, che il 72,9% delle vittime non denuncia la violenza subita alle autorità competenti.  

Le principali ragioni, di questa mancata denuncia, sono la paura e il timore delle reazioni dell'autore, che riguardano il 38,5% dei casi.  


Giovani e violenza: una generazione in crisi

Il 40,6% dei ragazzi, tra i 15 e i 19 anni, ha partecipato almeno una volta a zuffe o risse.  

Inoltre, il 10,9% ha assistito a scene di violenza filmate con un cellulare, segno che questi episodi vengono non solo visti, ma spesso condivisi e amplificati digitalmente, contribuendo a una sorta di “normalizzazione” della violenza.  

Secondo un'indagine condotta da Differenza Donna, il 39% dei giovani, tra i 14 e i 21 anni, ha dichiarato di aver subito violenza, con picchi tra le persone non binarie (55%) e le ragazze (43%).  

Il 30% dei giovani crede che la gelosia sia una dimostrazione d'amore, percentuale che sale al 45% tra i 14-15enni.  


Una responsabilità collettiva?

Personalmente non ritengo giusto dovermi prendere in carico questo tipo di problema, ma questi dati ci obbligano a riflettere su cosa stia accadendo nella nostra società. 

La violenza non è un problema isolato, ma un sintomo di disfunzioni più profonde: educative, culturali, sociali. 

È tempo di agire con decisione, sia promuovendo l'educazione al rispetto, sia sostenendo le vittime, sia  lavorando per una cultura che rifiuti ogni forma di violenza.

E, ultimo ma non ultimo, punendo in modo esemplare il trasgressore.

La scorciatoia del giudizio

Viviamo in un’epoca in cui tutto è esposto, immediato, superficiale. 

E in questa corsa alla sintesi abbiamo imparato a giudicare prima ancora di capire. 

Bastano due righe, una foto, un gesto. 

Il contesto? Superfluo. L’intenzione? Irrilevante.


Il giudizio è diventato una scorciatoia comoda, ma pericolosa. 

Ci illude di avere il controllo, di saper distinguere subito il “giusto” dallo “sbagliato”. 

Ma nella maggior parte dei casi è solo un riflesso automatico, un atto di pigrizia mentale.


Forse sarebbe più utile rallentare. 

Chiederci cosa ci manca per capire davvero. 

Accettare che la verità, a volte, è più scomoda della nostra opinione.

L'eleganza della costanza

Ci affascinano i colpi di genio.

I momenti di gloria, i grandi cambiamenti improvvisi. 

Ma la verità è che la vita si costruisce nella ripetizione.


È nella disciplina silenziosa delle piccole abitudini che nasce la vera forza. 

Non c’è nulla di spettacolare nel ripetere ogni giorno un gesto semplice, ma è proprio lì che si cela l’eleganza: nella coerenza, nella pazienza, nella volontà che non cerca applausi.

Non servono fuochi d’artificio per diventare migliori. 

Serve costanza. 

Quella che lavora nell’ombra e che, col tempo, disegna la luce.

sabato 24 maggio 2025

Scudetto meritato al Napoli

Ieri sera, con una vittoria prevedibile ma tutt’altro che scontata contro il Cagliari, il Napoli ha conquistato lo scudetto. 

Un traguardo meritato, frutto di una stagione condotta con determinazione, gioco brillante e continuità di rendimento.

Vana, ai fini della classifica, la vittoria dell’Inter a Como. 

I nerazzurri, già con la testa alla finale di Champions, hanno comunque onorato l’impegno. 

Nessun calcolo, solo rispetto per il campionato, per il pubblico e per il gioco del calcio. 

Una prestazione dignitosa che conferma la serietà e la mentalità di un gruppo abituato a competere.


Complimenti al Napoli per aver raggiunto l’obiettivo più ambito del calcio italiano.

 E altrettanti all’Inter, per aver lottato fino all’ultimo secondo utile.

Da sempre sportivo e tifoso, cresciuto con il pallone tra i sogni e i ricordi d’infanzia, non posso che essere contento di aver assistito a un campionato equilibrato e combattuto. 

Avrei preferito un finale diverso, è vero — ma è proprio questo lo spirito dello sport: saper accettare il verdetto del campo.

Doveroso riconoscere i meriti degli avversari e godersi, comunque, lo spettacolo.

Quest’anno lo è stato. Bellissimo.



Bravi a farci gli affari altrui, pessimi a fare i nostri interessi

Circa 48 ore fa, Bitcoin ha ritoccato il proprio massimo storico, sfiorando i 112.000 dollari.

Un evento epocale, simbolico, che avrebbe dovuto far discutere chiunque abbia a cuore il futuro economico, l’innovazione finanziaria, la libertà individuale.

E invece? Silenzio.

Google Trends, meravigliosamente obiettivo ed impietoso come sempre, tace. 

Nessuna impennata d'interesse. 


In Italia men che meno, l'attenzione pubblica era focalizzata su ben altro,  considerato evidentemente più importante.

Sui risultati delle partite di calcio e sulle polemiche infinite da bar sport. 

E sull’omicidio di Garlasco — tornato inspiegabilmente a dominare le cronache a quasi vent’anni di distanza.


Ci piace farci gli affari degli altri

Scavare nella vita e nella morte altrui, commentare ciò che non ci riguarda. 

Prostituzione della tragedia! Così lo chiamo questo tipo di interesse mediatico.


Ma quando si tratta di capire cosa può davvero impattare sulle nostre vite — come il cambiamento silenzioso ma dirompente dell’economia digitale — semplicemente, non ci siamo.

Forse è più comodo così. 

Forse è più facile distrarsi piuttosto che studiare, e indignarsi piuttosto che capire.

Peccato solo che, a forza di farci i fatti altrui, finiamo per non saper più fare i nostri interessi.


La disinformazione selettiva

Non servono più le menzogne. 

Basta raccontare solo una parte.

Un dettaglio sì, un altro no. 

Una fonte autorevole, un’altra screditata. 

Una notizia spinta ovunque, un’altra fatta sparire.


È così che oggi si crea la verità: selezionando.

Disinformazione selettiva: il modo più raffinato e pericoloso di manipolare.

Perché non ti accorgi nemmeno che ti manca un pezzo. 

Anzi, sei convinto di essere informato.


Ti indigni, prendi posizione, giudichi... ma sulla base di una narrazione che altri hanno confezionato per te.

In questo rumore assordante di verità parziali, forse la scelta più coraggiosa — e saggia — è fermarsi e chiedersi:

Sto cercando la verità, o solo conferme alla mia?

Perché a volte, crescere significa accettare che ciò in cui crediamo… potrebbe anche non bastare più.


L’arte della coerenza

Essere coerenti non significa essere rigidi. 

Significa semplicemente vivere secondo i propri valori, anche quando nessuno guarda.

In un mondo dove cambiare idea per convenienza è ormai normale, la coerenza è diventata una forma d’arte rara. 


Richiede coraggio. Richiede onestà. E spesso, richiede anche di pagare un prezzo.

Ma chi è coerente non ha bisogno di spiegazioni, perché ogni scelta parla per lui. 

Non serve alzare la voce o giustificarsi: basta esserci, con integrità.

La coerenza non urla. Convince.

venerdì 23 maggio 2025

Il debito e la povertà mascherata

Viviamo in una società dove tutto è accessibile a rate. 

Smartphone a rate. Vacanze a rate. Perfino le scarpe da ginnastica si possono pagare a rate.

Il risultato? Una ricchezza di facciata. Apparente. 


Dietro, c’è una povertà crescente, nascosta da abiti firmati e auto in leasing. 

Si vive sopra le proprie possibilità non per bisogno, ma per apparire.

Il debito non è più un’eccezione, è la regola. 

Ma un conto è investire, un altro è indebitarsi per mantenere uno status. Per soddisfare un bisogno indotto. 


Così il debito diventa una trappola. 

E la libertà, anche economica, si allontana. 

Perché se lavori solo per pagare ciò che hai già consumato, sei povero. 

Anche se hai un iPhone in tasca.


Lo vediamo su scala personale, ma anche nazionale. 

Gli Stati Uniti iniziano a scricchiolare, sotto il peso delle loro stesse aste obbligazionarie. 

Il Giappone è già dentro una bolla immobiliare e sociale, tenuta in piedi artificialmente da anni di politiche monetarie ultra espansive. 

E intanto le famiglie giapponesi fanno fatica a risparmiare anche solo pochi yen.


La vera ricchezza è non dover dimostrare nulla a nessuno.

E, soprattutto, non dover più nulla a nessuno.


La fatica di cambiare idea

Cambiare idea richiede coraggio. 

Non tanto per l’atto in sé, ma per ciò che implica: ammettere che si era in errore. 

È più comodo restare arroccati sulle proprie convinzioni, anche quando i fatti ci smentiscono, che rimettere in discussione l’intera struttura del proprio pensiero.


Viviamo in tempi in cui la coerenza viene spesso confusa con l’ostinazione. 

In realtà, essere coerenti con la propria onestà intellettuale significa saper dire: “Mi sbagliavo”.

Ma è raro. 

Perché cambiare idea ci espone. Ci rende vulnerabili. 


E allora ci si rifugia nella trincea delle proprie opinioni. 

Circondati solo da chi la pensa come noi, protetti da una realtà filtrata, selezionata.

Cucita su misura, per farci sentire sempre nel giusto.

Eppure, chi non cambia mai idea, molto probabilmente, non ha mai davvero pensato.



Se tutto è urgente, niente lo è davvero

Viviamo sommersi da notifiche, scadenze, appuntamenti last minute, "call urgenti" e mail marcate come "prioritarie". 

Ma quando ogni cosa diventa urgente, la vera urgenza si dissolve. 

È l’inflazione dell’importanza: tutto corre, e nulla conta davvero.


L’urgenza continua anestetizza il pensiero critico. 

Confonde il necessario con il superfluo, riduce il tempo per ciò che costruisce davvero valore. 

Serve fermarsi e chiedersi: cosa è veramente urgente? 

E cosa invece ci viene solo presentato come tale per rubarci attenzione e controllo?


Riscoprire la priorità significa anche scegliere. 

E scegliere è l’atto più rivoluzionario che ci resta.

 In un mondo che corre senza sapere dove.




Piccole abitudini, grandi risultati

Non servono rivoluzioni per cambiare la propria vita. 

Servono costanza, pazienza e disciplina.

Una pagina al giorno diventa un libro. Una corsa di dieci minuti diventa una maratona. Un euro risparmiato ogni giorno diventa un patrimonio, se poi viene investito meglio ancora.


Il problema è che sottovalutiamo sempre ciò che possiamo costruire nel lungo periodo.

Cerchiamo risultati immediati, senza accorgerci che, le grandi trasformazioni, nascono da piccoli gesti ripetuti.

Non è glamour. Non è appariscente. Ma funziona.

E chi ha capito questo, ha già vinto la prima  battaglia.





giovedì 22 maggio 2025

Stati Uniti: il gigante dai piedi d’argilla?

Negli ultimi giorni, un evento ha scosso i mercati finanziari americani con la forza di uno schiaffo improvviso.

Un’asta di obbligazioni del Tesoro è andata sostanzialmente deserta, segnalando un allarme che non può essere ignorato. 

I tassi offerti non sono riusciti ad attirare sufficiente domanda, un fatto raro e preoccupante, soprattutto per un Paese che da decenni è considerato il porto sicuro della finanza globale.


Dietro a questo scollamento c’è un debito pubblico che sta diventando sempre più insostenibile.

Ad aggiungersi una Federal Reserve alle prese con un'inflazione ancora difficile da domare, e un contesto geopolitico sempre più incerto. 

Gli investitori iniziano a chiedersi: fino a quando si potrà stampare moneta senza conseguenze? 

Fino a quando il dollaro resterà il re indiscusso?


Nota finale

In un’epoca in cui la fiducia è moneta rara, l’asta andata deserta è molto più di un incidente tecnico: è un campanello d’allarme. 

Se perfino i titoli di Stato americani iniziano a tremare, chi sarà il prossimo a cadere?

Forse è tempo che anche l’economia più potente del mondo si guardi allo specchio.


Tutti esperti, nessuno responsabile

Viviamo in un’epoca in cui l’opinione ha soppiantato la competenza. 

Ognuno dice la sua su tutto, dal clima alla geopolitica, dalla medicina all’economia, con una sicurezza che rasenta l’arroganza.

I social, in particolare, hanno reso ogni utente un potenziale “esperto”, ma solo nel commentare, giudicare, indignarsi. 

Mai nell’agire. 

Mai nel costruire. Perché il rischio, il dubbio, la fatica, il silenzio… non fanno like.

E allora eccoli, i nuovi protagonisti del dibattito pubblico:  i sapienti da tastiera! 

Commentatori seriali, indignati a tempo pieno. 


Ma quando si tratta di mettersi in gioco davvero, improvvisamente spariscono.

Servirebbe meno opinione e più esempio. 

Meno clamore e più responsabilità.

Perché il cambiamento non nasce da chi parla più forte.

Ma da chi fa in silenzio.



Svegliarsi presto è importante. Ma svegliarsi lucidi lo è ancora di più.

La retorica della sveglia all'alba è diventata quasi un dogma motivazionale. 

Ma a cosa serve aprire gli occhi alle 5, se la mente resta annebbiata, il corpo trascinato e l'intenzione assente?

Il vero valore del mattino non sta nell'orario, ma nella qualità della presenza. 

È inutile svegliarsi presto se si vive in modalità automatica.

Già schiavi delle notifiche, dei doveri, delle corse.

Svegliarsi lucidi significa dare al proprio giorno una direzione, non solo un orario. 

Significa partire con una scelta, non con un riflesso condizionato.

In fondo, non è il tempo che fa la differenza, ma come lo abiti.


L'arte del cominciare

Iniziare è l’atto più rivoluzionario che esista.

Non serve aspettare che tutto sia perfetto, che il cielo sia limpido e il vento soffi a favore. 

La perfezione è spesso la scusa elegante di chi ha paura. 

E la procrastinazione è solo la versione colta della rinuncia.


Chi comincia, anche male, anche sbagliando, ha già vinto su chi resta immobile a valutare le condizioni.

Il primo passo non è mai elegante. È traballante, goffo, incerto, come quello di un piccolo bimbo, quando impara a camminare. 

Ma è il passo che conta. Il coraggio non è partire sicuri, ma partire comunque.

Non aspettare l’ispirazione. Sii tu a ispirarti con l’azione.


mercoledì 21 maggio 2025

Carapaz conquista Castelnovo ne’ Monti: una tappa che racconta la bellezza della fatica

La tappa di oggi, da Viareggio a Castelnovo ne’ Monti, ha regalato uno spettacolo unico.

Fatto di salite arcigne e discese veloci, di fatica e di strategia. 

Ogni metro percorso è stato una sfida contro se stessi e contro il tempo. 

In una giornata che ha mostrato quanto la montagna sia maestra di resilienza e determinazione.


Nel silenzio delle valli e tra i panorami che sembrano fermare il respiro, i corridori hanno scritto pagine di grande ciclismo. 

Non c’è bisogno di parole roboanti: qui si parla con i fatti, con la forza delle gambe e del cuore.

A imporsi, in questo scenario, è stato Richard Carapaz che, con un attacco deciso nel finale, ha lasciato tutti alle spalle, conquistando una vittoria meritata.




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Se vuoi posso aggiungere anche qualche frase sul significato simbolico della fatica e della resilienza, o preferisci così?


Bitcoin riscrive la storia, ma Google resta in silenzio

Bitcoin ha appena segnato un nuovo massimo storico. 

Superato anche il picco raggiunto in gennaio: 109.481 dollari. 

Un traguardo epocale, non perché non fosse preventivato, ma perché toccato in una sorprendente quiete mediatica.


Il grafico racconta una parabola impressionante.

Ma ciò che stupisce è ciò che manca: nessun boom di ricerche su Google Trends, nessun clamore. 

La folla ancora non si è accorta di nulla. 

Oppure è rimasta alla finestra, impassibile.


Stiamo forse entrando in una fase di accumulazione silenziosa, dominata da mani forti e investitori istituzionali?

Il prezzo corre, ma il rumore no. 

E allora la domanda nasce spontanea:

quando Bitcoin entrerà davvero in bolla, fino a che livello potrà spingersi?

Sarà meglio aggiornarsi in tempo, prima che sia troppo tardi!






La caricatura dell’adulto moderno

Una cosa sia ben chiara: sono sempre stato — e lo sarò sempre — dalla parte della libertà di espressione. 

Ognuno è libero di vestirsi come vuole, tatuarsi, seguire mode, finché non danneggia gli altri. 

Ma questo non significa che ogni scelta sia intelligente, coerente, o degna di rispetto.


Ecco allora una categoria che fatico a non definire tragicomica.

Trattasi degli over 50, travestiti da ventenni, con tatuaggi di tendenza, vestiti di marca, look studiati per sembrare “fighi”, “giovani dentro”, “ribelli”. 

In realtà sembrano solo copie goffe di un’immagine preconfezionata.

Non è stile, è disperazione. Non è personalità, ma ne è, al contrario, completa mancanza, è vuoto da riempire.


Mi diranno che giudico, che sono bigotto, che la moda è espressione dell’anima. 

Bene: ma se l’unica anima che riesci a mostrare, è quella suggerita da uno stilista di tendenza, o da un influencer, forse non sei libero, forse non sei creativo, forse non sei eccentrico, forse non sei carismatico: forse sei schiavo!

E, perdonami, anche   ridicolo (senza forse).

Certo, arriveranno le solite frasi fatte: “Hitler non aveva tatuaggi, e guarda i disastri che ha fatto”,  “chi sei tu per giudicare?”, “è solo un modo per esprimersi”. 

Tutto già sentito. 


Ma il punto è un altro.

Se a cinquant’anni (e oltre) insegui i simboli dell’adolescenza, forse adulto non sei mai riuscito a diventarlo.

Il rischio di offendere è alto, ne sono consapevole. 

Ma sai qual è il vero problema? 

Che oggi, è quando non ti adegui e non fai il  trasgressivo che sei libero. 

E questo dà fastidio.


La crisi di valori (e di modelli)

Un tempo si ambiva a essere come un grande scrittore.

O un calciatore, un grande atleta, un medico luminare, un insegnante, un artista, o anche (perché no?)un artigiano. 

Oggi invece, in troppi, vogliono essere  un influencer. 

Ma non nel senso di "influenzare", bensì nel senso di imitare chi è diventato celebre per nulla.

Adolescenti, fragili per definizione, in cerca d’identità e approvazione, copiano gesti, abiti, espressioni. 

Comprano gli stessi oggetti, come se in quegli stessi ci fosse un frammento di vita vera. 

E fin qui, purtroppo, ci siamo già abituati.


Ma il dramma è ben altro.

Ovvero quando anche chi dovrebbe essere maturo, con un lavoro, una famiglia, una storia sulle spalle, scimmiotta le stesse pose, vive per le storie su Instagram, si muove solo per apparire, vestito con ciò che “va di moda” secondo uno schermo.


La crisi di valori non riguarda solo i giovani

Anzi. I giovani possono ancora salvarsi. 

Possono ancora trovare la loro strada. 

I più grandi, invece, non hanno alibi. Hanno solo lo specchio. 

E se lo guardassero bene, forse si renderebbero conto che sì, a un certo punto, è lecito chiamarli col loro nome: coglioni!



Bitcoin è di nuovo in cima, ma questa volta è diverso

Il silenzio prima della tempesta. E della FOMO dei pirla.

Bitcoin ha superato i 105.000 dollari, eppure l’aria è stranamente calma. 

Nessun assalto mediatico. Nessun barista che ne parla. 

Nessun "mio cuggino" che ti chiede “è il momento di entrare?”. 

Silenzio. Ed è proprio questo che fa rumore.


Perché chi conosce i cicli sa che i top veri arrivano così: senza trombe, senza cori. 

Non è la prima volta. Ma questa è forse la più clamorosa. 

Gli ETF spot incassano miliardi, i fondi entrano zitti, le mani forti accumulano. 


E il parco buoi? Dorme. Come sempre.

Questa non è più la giostra del 2017 o il carnevale del 2021. 

Non lo era nemmeno allora, ma adesso è ufficiale: "qui si fa sul serio".

Qui si sta costruendo. A fari spenti, nel silenzio. 


Bitcoin non è più solo scommessa: è asset. 

È riserva. È piano B. Talvolta anche piano A.

E mentre il prezzo corre, i media guardano altrove. Fino a quando?


Perché attenzione: la FOMO arriverà. 

È matematica. Arriveranno i titoloni, le richieste isteriche, i “stavolta non me lo perdo”. 

E come sempre entreranno tardi. Troppo tardi. Quando i giochi saranno fatti, e chi ha capito prima starà già vendendo a chi arriva col fiato corto.


Non perché sia giusto o sbagliato.

Ma perché è così che funziona il mercato

E chi se ne dimentica, puntualmente paga dazio.


martedì 20 maggio 2025

Bitcoin rasenta i massimi, ma quasi nessuno se ne accorge

Bitcoin è tornato lassù, dove l’aria è sottile. 

Il prezzo sfiora i 105.000 dollari, tecnicamente a un passo dai massimi storici in termini reali. 

Ma qualcosa stona: l’euforia non c’è. 

Nessun clamore mediatico, nessuna corsa al “FOMO”, nessuna fila virtuale di neofiti pronti a comprare all’ultimo momento. 


Un silenzio quasi inquietante. E forse proprio per questo carico di significato.

A differenza del 2021, quando ogni nuovo rialzo accendeva il circo mediatico, oggi regna l'indifferenza. 

I grandi giornali sono concentrati su altro, i feed social sono tiepidi, Google Trends resta sonnacchioso. 


Eppure, il prezzo è lì, altissimo. Cosa sta succedendo?

La risposta potrebbe essere semplice quanto contro intuitiva: questa non è più una fase speculativa, ma di accumulo razionale. 

Gli investitori retail sono ancora assenti, bruciati dai crolli precedenti. 

Gli istituzionali, invece, stanno continuando a comprare, silenziosamente, attraverso strumenti come gli ETF spot. 

Non cercano adrenalina, cercano esposizione. Discreta, graduale, stabile.


Questa assenza di rumore è un segnale. 

Significa che il mercato non è drogato di entusiasmo, ma sostenuto da una nuova consapevolezza. 

Bitcoin non è più solo un asset volatile e affascinante: sta diventando una riserva di valore, una “hard asset” digitale. 


E quando il prezzo sale in queste condizioni, la salita è più solida, meno esposta ai venti dell’irrazionalità.

Se davvero stiamo assistendo a un nuovo massimo storico, è uno dei più sottovalutati di sempre. 

Ma chi guarda oltre i titoli sensazionalistici, sa bene che spesso i veri trend partono proprio così: nel silenzio


L'oblio della memoria

Nell’epoca in cui tutto si salva in cloud, dimentichiamo di ricordare davvero. 

La memoria non è solo archiviazione, è identità, è radici.

Ci hanno detto che ricordare non serve, tanto c’è Google. 

Ma senza memoria, anche il presente perde senso.

Giappone, tra decrescita demografica e debito: la sfida di un modello stanco

Il Giappone continua a rappresentare un laboratorio avanzato di ciò che può accadere alle economie sviluppate. 

Con una popolazione in costante declino e un’età media sempre più elevata, il Paese sta affrontando una trasformazione profonda, che mette in discussione la sostenibilità del proprio modello socio-economico.

Nonostante una tecnologia all’avanguardia e una produttività per lavoratore tra le più alte, il Paese fatica a crescere. 

I tassi d'interesse ultra-bassi, che avrebbero dovuto stimolare l'economia, si sono cronicizzati, mentre il debito pubblico ha superato il 260% del PIL. 

La Banca del Giappone continua a comprare titoli di Stato in misura massiccia, sfumando sempre più la linea tra politica monetaria e fiscale.

Ma la sfida più radicale è quella demografica: la popolazione si contrae, l'immigrazione rimane limitata e la piramide sociale si rovescia. 

Meno giovani, più pensionati. Meno consumi, più spese assistenziali. 


Un’economia che invecchia insieme ai suoi cittadini.

La vera domanda che si pongono oggi gli osservatori è: il Giappone è un’eccezione o un’anticipazione? 

L’Occidente, con dinamiche simili anche se ritardate, potrebbe presto trovarsi di fronte agli stessi nodi irrisolti.

In un mondo che insegue crescita perpetua, il Giappone mostra cosa accade quando la crescita si ferma ma le pretese rimangono. 

Ed è lì, in quel silenzio ordinato e inquieto, che si gioca il futuro di un intero modello di sviluppo.


La rivoluzione della gentilezza (quella vera)”

In un mondo cinico e competitivo, la gentilezza è diventata sospetta. 

Ma praticarla davvero – con coerenza, senza secondi fini – è un atto controcorrente.

Non è debolezza: è forza che non ha bisogno di urlare.”

lunedì 19 maggio 2025

Indignati e immobili: la nuova comfort zone

Indignarsi oggi è semplice. 

Basta un tweet, un titolo letto al volo, un post condiviso con rabbia. 

Siamo tutti pronti a puntare il dito, ma pochi a muovere un dito.


Sant’Agostino diceva che la speranza nasce da due figli: l’indignazione e il coraggio di cambiare. 

Il secondo, lo abbiamo perso per strada.

Siamo professionisti dell’indignazione, ma dilettanti dell’azione.

Perché indignarsi costa poco. Cambiare, invece, costa tutto.


Professionisti dell’indignazione (sterile)

Viviamo in un’epoca in cui l’indignazione è diventata una posa. 

Un gesto teatrale, istantaneo, compulsivo, che si consuma in uno scroll, in una reaction, in un commento infuocato. 

Ci si indigna per tutto, ma quasi mai si fa qualcosa davvero. 

Si resta spettatori seduti su un trono immaginario, convinti che basti puntare il dito per cambiare il mondo.


Eppure Sant’Agostino diceva che la speranza è fatta di due bellissimi figli: l’indignazione e il coraggio. 

L’indignazione per come vanno le cose, e il coraggio per cambiarle.

Oggi, di indignazione ne abbiamo da vendere. 

Ma il coraggio? L’azione? Il mettersi in discussione, il cambiare qualcosa nel nostro piccolo, anche solo spegnendo il telefono e ascoltando davvero chi ci parla?


Non ci manca la voce. Ci manca la coerenza.

E allora basta con l’indignazione in offerta speciale. 

Serve tornare ad agire. Perché chi si indigna soltanto, alla lunga, diventa complice. 

E il mondo non lo cambiano i più arrabbiati, ma i più determinati.



Educati a non fallire

Ci hanno educati con l'ossessione alla perfezione 

Il voto alto, la condotta irreprensibile, il lavoro sicuro. 

Ogni sbaglio doveva essere evitato, nascosto, dimenticato. 


Ma è proprio lì, in quegli inciampi che ci insegnano qualcosa, che nasce la forza vera.

In Italia il fallimento è una macchia. 

In America, un curriculum. Lì puoi cadere, rialzarti, e nessuno ti guarda come un perdente. 

Qui, se fallisci una volta, te lo porti dietro come un marchio a fuoco. 

E così ci abituiamo a non rischiare, a non tentare, a restare immobili.


Siamo stati educati a non fallire, ma così facendo ci hanno impedito di imparare a vincere.

Ma un dubbio mi assale

"Forse non ci hanno mai insegnato a fallire… perché qualcuno aveva troppa paura che un giorno imparassimo a rialzarci?"




La forza delle piccole cose

Ci hanno convinti che la felicità sia altrove

In un altrove lontano, rumoroso, straordinario. 

Ma il vero cambiamento — quello che costruisce, che educa, che trasforma — non fa rumore. 

È fatto di gesti piccoli, ripetuti. 


Sia chiaro, non è la routine sterile e anestetizzante che spegne il pensiero. 

Ma quella scelta con lucidità che, giorno dopo giorno, allena la volontà, affina la coscienza e dà forma al carattere.

Nel mondo dei click e delle notifiche, serve coraggio per restare fermi su ciò che conta.

Serve forza per essere coerenti quando tutto spinge verso l’eccezionalità apparente.




domenica 18 maggio 2025

Il tempo rubato dai dispositivi

Non ce ne siamo accorti subito. 

All’inizio era pratico, comodo, utile. 

Poi è diventato costante, pervasivo, irrinunciabile. 

I dispositivi digitali – smartphone, tablet, orologi intelligenti – sono entrati nella nostra vita con la promessa di farci risparmiare tempo. 


In realtà, ce l’hanno portato via.

Non è solo una questione di ore passate davanti a uno schermo, ma della qualità di quel tempo. 

L’attenzione viene continuamente frazionata, interrotta, risucchiata da notifiche, messaggi, aggiornamenti, algoritmi pensati per tenerci lì. Presi. Distratti. Connessi eppure lontani da tutto ciò che conta davvero.


Lo psichiatra Paolo Crepet ha lanciato più volte l'allarme 

Stiamo crescendo generazioni che non sanno più uscire di casa. 

Che preferiscono la sicurezza di una camera e uno schermo, alla libertà incerta del mondo reale. 

È l’abitudine che anestetizza, la ripetizione che paralizza. 

Si perdono capacità relazionali, si annulla il desiderio, si rinuncia al rischio. 

Ma senza rischio non esiste crescita. Né identità.


Forse è tempo di disconnettere per ritrovare il tempo. 

Non quello dei device, ma il nostro.

Perché se non scegli tu a cosa dare attenzione, qualcun altro l’ha già scelto per te.

E stai vivendo la tua vita con il timer di qualcun altro.


L’abitazione che anestetizza

Una volta la casa era rifugio. 

Oggi, troppo spesso, è narcosi. Ci chiudiamo dentro pensando di proteggerci dal mondo, e invece ci isoliamo da noi stessi.

Non è solo una questione architettonica, ma culturale. 

Le abitazioni moderne – specialmente nei contesti urbani – sono pensate per sedare, non per stimolare. 

TV sempre accesa, assistenti vocali che completano le frasi, climatizzatori che rendono ogni stagione uguale all’altra. 

Le finestre restano chiuse, il silenzio è bandito, la solitudine coperta dal rumore di fondo. 


E intanto, fuori, il mondo cambia. Ma noi non ce ne accorgiamo.

Paolo Crepet lo dice chiaramente: “Chi non esce più di casa ha smesso di cercare”. 

E in effetti, ci stiamo spegnendo nella comodità. 

Pensiamo che il benessere sia assenza di stimoli, che la tranquillità sia assenza di conflitti. 

Invece, dice Crepet, “la vita vera è fatta di inciampi, di errori, di passioni”. 

Ma se eviti tutto questo, se resti dentro, se ti fai bastare il telecomando e il food delivery, non vivi: sopravvivi.


La casa diventa una culla ovattata dove tutto è sotto controllo. 

Un luogo dove anestetizzare le emozioni, rinviare le decisioni, disconnettersi dalla realtà. 

Ci sediamo sul divano dopo giornate fatte di iper connessione e corse a vuoto, e lo chiamiamo “relax”. 

In realtà, spesso è solo stanchezza travestita.


E mentre i dispositivi ci coccolano e le app ci leggono nel pensiero, perdiamo la capacità di scegliere. 

E di pensare. Perché chi si abitua a non uscire – non solo di casa, ma da sé – finisce per non distinguere più tra il comfort e la prigione.

“L’abitudine è una droga potentissima”, dice ancora Crepet. 

Ci si abitua a tutto, anche all’assenza di vita. 

Anche al fatto che fuori piove, che il vicino fa rumore, che il mondo ti sfida. Eppure è proprio lì che si cresce, non nel bozzolo che chiamiamo casa.

Siamo davvero sicuri che “stare bene” significhi non sentire più niente?



Il valore perduto della semplicità

In un’epoca in cui tutto corre, si moltiplica e si complica, la semplicità sembra un concetto fuori moda. 

Eppure è proprio nella semplicità che risiede una delle forme più profonde di intelligenza. 

Saper togliere, scegliere, sottrarre: è questa l’arte dimenticata.


Viviamo dentro una giungla di stimoli.

Continui inviti a volere di più, a desiderare tutto, ad accumulare esperienze, oggetti, relazioni, notifiche. 

Ma nella rincorsa al troppo, abbiamo perso il gusto dell’essenziale.


Semplicità non vuol dire povertà, né rinuncia, al contrario fa rima con ricchezza.

Vuol dire lucidità. Vuol dire riconoscere ciò che conta davvero. Vuol dire non riempire il vuoto con l’inutile. È un atto estetico e insieme etico.

Essere semplici in un mondo che ci vuole complessi e sovraccarichi è una forma di resistenza. 

Significa sottrarsi al ricatto del superfluo, alla bulimia dell’apparire, all’ansia del confronto continuo.


Chi sa vivere con il necessario, è un vincente. 

Chi sa desiderare meno, possiede di più. Non perché ha, ma perché sa dare valore. 

La semplicità è la chiave per ritrovare un rapporto sano con il tempo, con le cose, con gli altri, con se stessi.


E c’è chi la semplicità non la predica soltanto, ma la vive. 

Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo, abita ancora nella stessa casa acquistata nel 1959 e guida un’auto usata di quasi dieci anni, perché per le sue esigenze è più che sufficiente. 

Non ostenta, non rincorre il lusso per il lusso. È coerente con ciò che dice.

Non  perché sia tirchio, ma perché è intelligente e disciplinato.

Ed è  proprio quando il mondo ci spinge a comprare l’ennesimo oggetto che promette felicità, vale la pena ricordare proprio le sue parole:

“Quando compri cose che non ti servono, presto sarai costretto a vendere cose che ti servono.”


La semplicità, in fondo, è anche un atto di intelligenza economica. E di libertà.



Il pensiero pigro

Viviamo in un’epoca in cui tutto è a portata di click. 

Notizie, opinioni, analisi, giudizi, sentenze.

 Mai come oggi è stato così facile “sapere” senza davvero conoscere, “capire” senza realmente comprendere. 


Ma dietro questa comodità si nasconde una trappola sottile e pericolosa: quella del pensiero pigro.

Il pensiero pigro è quello che si accontenta del titolo, del post, del commento letto per caso. 

È quello che scorre distrattamente tra decine di contenuti e si convince di avere una visione chiara del mondo. 

È quello che rifiuta la complessità, che fugge l’approfondimento, che si rifugia nelle certezze preconfezionate perché fare domande costa fatica.


E così ci ritroviamo a ripetere slogan, a schierarci per appartenenza, a credere senza dubitare, a condannare senza analizzare. 

Il pensiero pigro è l’alleato perfetto di chi vuole manipolare, semplificare, controllare. 

È il terreno fertile dove crescono le menzogne, le polarizzazioni, i fanatismi.


Perché pensare davvero è scomodo. 

Richiede tempo, letture, silenzi, errori. 

Pensare davvero vuol dire ammettere che si può cambiare idea, che forse si era in torto, che la realtà è più sfumata di quanto sembri. 

Pensare davvero è un atto di coraggio e di libertà.


Il paradosso è che oggi, con tutte le informazioni a disposizione, è diventato più difficile essere pensanti. 

Non per mancanza di stimoli, ma per eccesso. 

Il sovraccarico informativo ha atrofizzato la nostra capacità di elaborare. Invece di orientarci, ci perdiamo.


E allora, forse, oggi il vero atto rivoluzionario non è “dire la propria”, ma imparare di nuovo a pensare. 

Con lentezza, con profondità, con fatica.

 Anche a costo di restare in silenzio per un po’. Perché è solo dal pensiero lucido che può nascere una parola che abbia senso.

E questo, lo sanno bene, fa molta più paura di mille urla vuote.



sabato 17 maggio 2025

Il lavoro che non dà identità

Un tempo il lavoro era identità. 

Era riscatto, appartenenza, orgoglio.

Oggi, per molti, è solo una necessità. Una lotta quotidiana per non affondare.

Una prestazione misurata a ore, pagata a cottimo, svuotata di senso.


Ti chiedono flessibilità, ma intendono precarietà.

Ti promettono crescita, ma ti offrono turni, call, contratti a termine.

Ti parlano di team, ma sei solo. Isolato dietro uno schermo, o dietro una cassa.


E mentre il lavoro perde dignità, perde anche il potere di definire chi siamo.

Non ti chiedono più "Cosa fai?", ma "Cosa possiedi?".

La tua identità non è più costruita sul fare, ma sull’apparire.

In questa distorsione, il lavoro non è più luogo di costruzione del sé, ma solo strumento per finanziare un'immagine da esibire.


E così resti senza radici. Un ingranaggio che gira, ma non sa più perché.

Senza identità, senza riconoscimento, il lavoro diventa fatica muta.

E la società ti illude che se non sei realizzato, è colpa tua.

Ma forse, il vero fallimento è di un sistema che ha smesso di dare significato al lavoro.



L’economia della solitudine

Abbiamo barattato la compagnia con la connessione.

Ma nessun abbraccio passa attraverso uno schermo.

Viviamo nell’epoca in cui la solitudine è diventata un’opportunità… di business.

Ci vendono compagnia in abbonamento, supporto emotivo in formato premium, amicizia on demand. 


Paghi, e ti sembra di non essere solo.

Ti senti visto, ascoltato, forse perfino amato. 

Ma è un’illusione algoritmica, confezionata per monetizzare il tuo vuoto.

E mentre ci fanno credere che basti un like per sentirsi parte di qualcosa, l’industria dell’intrattenimento, della salute mentale e dei social media ingrassa sulle nostre relazioni evaporate.


La verità? Ci stiamo disabituando al contatto umano.

Non siamo più capaci di stare con gli altri, e neppure con noi stessi.

Ma se tutto può essere comprato, anche l’affetto, allora la solitudine non è più una condizione: è una strategia.

È funzionale. Produce dipendenza. Genera profitto.


Perché un essere umano solo è più fragile. E un consumatore fragile… consuma di più.




L’informazione che non informa

Ci sommergono di notizie, ma ci lasciano ignoranti.

Ci inseguono notifiche, breaking news, analisi, dati. Ma non capiamo. Non approfondiamo. Non ricordiamo.


È l’informazione che non informa, ma distrae.

Non illumina, ma confonde.

Non libera, ma manipola.


Ci dicono tutto, eppure non sappiamo più nulla.

E intanto si spegne il pensiero critico, si eclissa la verità, si celebra la superficialità.

Abbiamo accesso a ogni cosa, ma ci sfugge il senso.


Siamo tutti personaggi in cerca di attenzione.

Chi con un selfie, chi con un’opinione, chi con un urlo nel vuoto, chi con un acquisto sfrenato da mostrare.

Viviamo per un riflesso nello sguardo altrui, mendicando conferme nei like e nei cuori digitali.

E in questo rumore di fondo, fatto di ego e notifiche, il silenzio diventa un atto rivoluzionario.

Forse l’unico gesto davvero autentico.

venerdì 16 maggio 2025

L’algoritmo ti conosce

Sembra un’esagerazione, ma non la è.

 L’algoritmo ti conosce. Sa cosa ti piace, cosa ti incuriosisce, cosa ti infastidisce. 

Sa quali parole ti trattengono qualche secondo in più su uno schermo, e quali invece ti fanno scorrere in fretta. 

L’algoritmo osserva, registra, apprende. E ti propone contenuti sempre più calibrati su di te. Ti coccola, ti liscia il pelo. Ti conferma.


Conosce le tue paure, i tuoi desideri, i tuoi tic. 

E tu ci caschi, convinto di scegliere liberamente. 

Ma quanta libertà c’è in un mondo dove tutto ci viene proposto prima ancora che ce ne rendiamo conto?


Siamo figli di una società che ci spinge alla personalizzazione estrema, fino a costruire bolle informative perfette, comode, rassicuranti. 

Ma anche isolate. L’algoritmo ci tiene al caldo. E intanto addormenta il dissenso, la fatica del confronto, la sorpresa dell’imprevisto.


La vera rivoluzione oggi è uscire da quel tracciato. 

Recuperare il pensiero critico. Leggere un libro non suggerito. Vedere un film che non corrisponde ai “tuoi gusti”. Uscire dalla zona algoritmica di comfort.


Ma non tutto è perduto.

La consapevolezza può nascere ovunque.  

Basta volerla vedere.

Perché l’algoritmo ti conosce. Ma alla fine  seli tu a decidere chi vuoi essere.


L’autenticità come rivoluzione

In un mondo in cui la costruzione dell’immagine ha sostituito la sostanza, essere autentici è diventato un atto rivoluzionario. 

Viviamo immersi in un flusso costante di contenuti, profili perfetti, vite levigate da filtri e narrazioni studiate. 

L’identità sembra più un progetto di marketing che un’espressione genuina dell’essere. Lo status symbol al primo posto!


Eppure, paradossalmente, è proprio l’autenticità ciò che ci manca e che, nel profondo, cerchiamo.

Essere autentici oggi significa sottrarsi a una macchina che omologa e uniforma, che trasforma anche la ribellione in tendenza. 

Significa dire “no” al rumore di fondo, scegliere parole vere invece di slogan, preferire gesti imperfetti ma sinceri all’estetica plastificata dei modelli digitali.


L’autenticità non è solo un valore personale, ma un atto sociale. 

Chi riesce a mostrarsi per ciò che è, senza la costante preoccupazione di piacere o di rientrare nei canoni, spezza un meccanismo perverso che alimenta ansia, confronto tossico, insicurezze. 

È come accendere una luce nella nebbia: non cambia tutto, ma indica una direzione possibile.


La rivoluzione dell’autenticità passa anche dai piccoli gesti quotidiani. 

Dire ciò che si pensa senza paura di essere giudicati, scegliere ciò che si sente giusto anziché ciò che è approvato, scrivere ciò che si vive davvero e non ciò che “funziona”. 

È una forma di coraggio silenzioso, ma contagioso.

Perché chi è autentico, alla fine, non ha bisogno di urlare. Gli basta essere. E questo, oggi, è il vero atto dirompente.

Ma, soprattutto, semplifica!



L’eccesso che disinforma

Mai come oggi siamo stati così informati. 

E mai come oggi siamo stati così confusi. 

Notifiche, aggiornamenti in tempo reale, breaking news, feed personalizzati, opinioni travestite da fatti. 

È la sovra-informazione, che non ci rende più consapevoli, ma più disorientati.


Il paradosso è chiaro: l’informazione è ovunque, ma la conoscenza è sempre più rara. 

Sappiamo tutto in superficie, nulla in profondità. 

E mentre rincorriamo l’ultima notizia, perdiamo il senso delle cose. 

Le idee non maturano più, si consumano. Il tempo del pensiero è stato sostituito dalla velocità dello scroll.


Ogni giorno ci troviamo esposti a un flusso costante di dati, opinioni, interpretazioni. 

Ma chi ha il tempo – o la voglia – di verificarle? Di contestualizzare? Di ragionare davvero? 


L’informazione istantanea ha un prezzo. 

L’incapacità di distinguere tra ciò che è importante e ciò che è solo rumoroso.

La sovra-informazione ci anestetizza. 

È come il rumore bianco: sempre presente, ma ormai inascoltato. 

Produce passività, non coscienza. Reattività, non riflessione. 

Si finisce col credere di sapere, quando in realtà si è solo sommersi.


La verità, oggi, non si cerca: si consuma

E spesso la si scambia con la prima cosa che conferma ciò che già pensiamo. È il trionfo del bias, dell’emozione, dell’algoritmo.

Forse, allora, il vero atto rivoluzionario è filtrare. Disconnettersi. Scegliere il silenzio, come atto di selezione. 

Leggere meno, ma meglio. Cercare, ogni giorno, di sapere di meno… ma capire di più.




Il suono del silenzio

Viviamo in un mondo dove il rumore è diventato la norma. 

Scorriamo ossessivamente notizie, notifiche, feed. 

Parliamo per riempire, ascoltiamo per rispondere, ma quasi mai per capire. 

In questa corsa, il silenzio è diventato un’eresia. 

Fa paura, perché obbliga ad ascoltarsi.


Eppure, è proprio nel silenzio che abita la lucidità. 

È lì che la mente si riordina, che i pensieri non gridano ma si sedimentano. 

 Nel silenzio, i gesti tornano ad avere peso. Il respiro si fa profondo. La parola, quando arriva, è necessaria. È vera.


Il silenzio non è solo assenza di suono. 

È resistenza. È il rifiuto di dover sempre apparire, dire, commentare. 

È un atto politico, intimo e radicale. 

È scegliere di non urlare quando tutti lo fanno. È guardare il cielo, mentre il mondo resta inchiodato a uno schermo.


Charlie Chaplin, con i suoi film muti, ci ha insegnato che anche senza parole si può comunicare. 

Forse meglio. Forse di più. Forse più a fondo. 

Non a caso, quando decise di parlare – nel Grande Dittatore – lo fece con una potenza che ancora oggi scuote le coscienze.


Dopo ogni parola detta, ogni contenuto pubblicato, ogni posizione presa… ci vuole un tempo di vuoto. 

Un tempo per fare spazio. Perché il rumore logora, ma il silenzio trasforma.

In un’epoca in cui tutti parlano, chi tace ascolta. E chi ascolta, forse, capisce.


giovedì 15 maggio 2025

Bitcoin sottochiave: segnali di accumulo e la grande domanda in agguato

Non è una notizia qualunque quella riportata da Cointelegraph.

Più di un miliardo di dollari in Bitcoin è stato ritirato da Coinbase in una singola giornata. 

Una delle maggiori fuoriuscite di sempre. 

Nessun commento ufficiale, nessuna dichiarazione roboante. 

Solo un movimento silenzioso, ma pesantissimo. 

Silenti come lo sono, del resto, tutti i movimenti di rilievo.

Da parte di chi? Non è dato saperlo, ma in casi simili la risposta più plausibile è sempre la stessa: istituzionali.


Cosa vuol dire, però, spostare enormi quantità di Bitcoin dagli exchange a wallet esterni?

Non necessariamente che qualcosa sta per accadere, ma potrebbe essere un segnale. 

Una scelta che potrebbe indicare una volontà di accumulo, di conservazione a lungo termine, di hold, come si dice in gergo. 

Quando i BTC lasciano gli exchange, diminuiscono i volumi disponibili per essere venduti nel breve termine. 

Questo potrebbe ridurre la pressione di offerta sul mercato e, di conseguenza, avere un impatto sui prezzi.

Siamo ancora nel campo delle ipotesi, ed è giusto mantenere prudenza. 


Ma non si può ignorare il fatto che un simile movimento potrebbe essere interpretato come segnale di fiducia, o addirittura preludio a una fase di domanda crescente.

Se la narrazione di Bitcoin come "bene rifugio digitale" dovesse consolidarsi in un contesto macro incerto, con inflazione ancora volatile e tassi d’interesse ballerini, l'interesse per l’asset potrebbe salire ancora. 

Soprattutto se la scarsità percepita aumenta. E in questo caso, non si tratta solo di parole: i numeri parlano chiaro.


Qualcuno ha chiuso la cassaforte.

Perché? Non lo sappiamo (lo potrebbero solo intuire, coloro che ne sono a conoscenza)

Ma se è stato fatto, forse è perché dentro ci ha messo qualcosa a cui tiene molto.

Link e titolo relativi all’articolo di riferimento?

Eccoli!

Coinbase registra un deflusso di 1 miliardo in BTC: segnale di domanda istituzionale? – Cointelegraph

Buona lettura 


L’ansia dell’immortalità – Quando il sogno di vivere per sempre diventa incubo quotidiano

Non temiamo più la morte.

O, forse, non ce lo concediamo. 

In un mondo che esalta la performance, l'efficienza e l'eterna giovinezza, la morte è diventata l'ultimo tabù. 

L’unica vera offesa. 

Qualcosa da nascondere, da rimandare, da combattere con ogni mezzo.


E allora si moltiplicano le promesse di immortalità. 

Tecnologie che conservano i dati del nostro cervello, start-up che inseguono l’elisir di lunga vita, estetica che cerca di congelare il tempo. 

L’invecchiamento non è più un processo naturale, ma un errore da correggere. 

Come se la vita avesse senso solo se può durare per sempre.


Ma c’è un problema: mentre cerchiamo di sfuggire alla morte, stiamo smettendo di vivere davvero.

L’ossessione dell’immortalità produce una nuova forma di ansia. 

Un’ansia sottile, moderna, che ci costringe a rincorrere costantemente l’idea di una vita perfetta, sana, ininterrotta. 

Come se ogni ruga fosse una sconfitta, ogni pausa un tradimento. 

Come se il tempo non fosse più qualcosa da abitare, ma da conquistare.


Il paradosso è feroce: più rincorriamo la durata, più smarriamo il senso

Perdiamo l’intensità. Ci dimentichiamo che vivere ha valore proprio perché finisce. 

Che ogni scelta ha peso perché non possiamo tornare indietro. Che ogni istante è irripetibile, e per questo prezioso.


È qui che la riflessione torna necessaria: siamo davvero più liberi se potenzialmente eterni? 

O rischiamo di diventare schiavi di un tempo illimitato, ma svuotato?

Forse dovremmo imparare da chi, nella consapevolezza della fine, ha trovato la forza di vivere con autenticità. 

Forse l’immortalità, più che una conquista, è una tentazione. 

E forse è nella finitezza che la vita trova il suo significato più profondo.

La follia della scelta – Quando tutto è possibile, nulla ha senso

Viviamo nel tempo dell’abbondanza apparente. 

Ogni giorno, in ogni ambito, siamo sommersi da un diluvio di possibilità. 

Al supermercato ci sono dieci varianti di ogni prodotto, su Netflix mille film che non guarderemo mai, sui social milioni di vite da cui lasciarci suggestionare. 

Sullo sfondo, una promessa implicita: più opzioni hai, più sei libero.


Ma è davvero così?

La libertà di scegliere è diventata una trappola dorata. 

Perché non è accompagnata da un criterio, da un’educazione al discernimento. 

Siamo liberi di scegliere tutto, ma senza sapere cosa vogliamo davvero. 

Il risultato è l’ansia. E il paradosso: più possibilità abbiamo, più sentiamo di sbagliare.


La psicologia lo ha chiamato paradosso della scelta. 

Il filosofo Zygmunt Bauman parlava di “vite liquide” che scorrono senza forma, disgregate da un eccesso di decisioni reversibili. 

Ogni opzione scartata diventa un piccolo lutto, ogni scelta fatta è un dubbio che si accumula.


Non è più l’epoca del “non posso”, ma del “potrei”. 

E questo è il suo veleno. Perché la vera follia non è l’assenza di possibilità, ma il loro eccesso. 

Una follia sottile, elegante, vestita da libertà.


A ben guardare, la nostra epoca ha qualcosa di claustrofobico. 

Viviamo nello spazio aperto delle infinite alternative, ma spesso come criceti in una ruota: liberi, certo, di scegliere il gusto dello yogurt o il colore dell’iPhone, ma non la qualità del nostro tempo o la profondità delle nostre relazioni.

E allora la domanda è semplice, ma scomoda: siamo davvero liberi, o siamo solo consumatori di scelte?


Il tempo rubato – Cronometrati dalla produttività

C’è stato un tempo in cui il tempo era umano. 

Aveva il ritmo delle stagioni, dei passi, del silenzio. 

Poi arrivò l’era della produzione, poi quella della prestazione. 

E ora, quella dell’ossessione.


Oggi non ci è più concesso essere: dobbiamo performare.

Ogni minuto non "utilizzato" è un peccato moderno. 

L’ozio è stato cancellato dal vocabolario etico, e chi lo rivendica viene guardato con sospetto. “Che cosa fai?” non chiede più come stai, ma quanto rendi.


In questo mondo cronometrato, l’icona che meglio ci rappresenta non è un volto sereno. 

Bensì quello smarrito e meccanizzato di Charlot in Tempi moderni: inghiottito da ingranaggi che girano più veloci di lui, a rincorrere bulloni come noi rincorriamo mail, notifiche, KPI, followers, monetizzazione.


Ma i tempi moderni sono diventati ipermoderni. 

Gli ingranaggi oggi non sono più fisici, ma digitali: algoritmi che ci profilano, app che misurano il sonno, il battito, i passi, i minuti persi sullo schermo. 

Persino il riposo dev’essere efficiente.


Byung-Chul Han, in un saggio divenuto ormai riferimento, scriveva che "la società della stanchezza".

Quella in cui ci auto-sfruttiamo, in nome di una libertà che in realtà è solo ansia da prestazione. 

Non serve più un padrone: basta un obiettivo.


Così il tempo libero è diventato "tempo da impiegare bene". 

Una pausa non è più tale se non produce qualcosa: un contenuto, un networking, una crescita. 

E se ti prendi una mattinata per guardare il cielo? Sei un fallito. 

Se disinstalli i social? Antisociale. Se rallenti? Rimani indietro. Ma dietro a cosa, nessuno lo sa.


Eppure Pasolini ci aveva avvertiti: quando il tempo non serve più a raccontare ma solo a consumare, qualcosa muore. 

E non è solo la cultura. È l’anima.

Forse dovremmo ricominciare da Chaplin: da quel suo passo scoordinato, buffo, eppure profondamente umano. 

Ricominciare a difendere il diritto a perdere tempo. Che poi, forse, è il modo migliore per ritrovarlo.


mercoledì 14 maggio 2025

Sempre connessi, mai presenti

Siamo ovunque, tranne che qui. 

Le notifiche ci chiamano, gli aggiornamenti ci rincorrono, i feed scorrono. 

Viviamo in un eterno presente digitale, che ci ruba la presenza reale.


La connessione perenne, da promessa di libertà, è diventata una nuova forma di dipendenza. 

Non riusciamo più a stare fermi, né soli, né in silenzio. 

Ogni attimo di vuoto dev’essere riempito da uno schermo, da un input, da una voce virtuale.


La cosa più rivoluzionaria oggi non è l’iperconnessione, ma il contrario: scollegarsi. 

Stare in silenzio. Guardare negli occhi. Ritrovare l’autenticità nei gesti semplici, non filtrati.

Eppure, ogni volta che ci proviamo, sentiamo l’astinenza. 

È l’ansia da disconnessione, un vuoto che ci mette a nudo.


Un tempo si diceva “il silenzio è d’oro”, oggi sembra quasi una minaccia.

Ma se non riusciamo a essere presenti nel momento che viviamo, in che vita siamo immersi davvero?

Viviamo un’epoca dove il rumore è diventato la normalità. Ma forse il vero coraggio è spegnere. Tacere. Ascoltare.

Perché la presenza, quella vera, non ha bisogno di Wi-Fi

L’età dell’ansia (e dello shopping compulsivo)

Viviamo nell’età dell’ansia. 

Non quella episodica, passeggera, ma quella cronica, collettiva, quasi strutturale. 

È un’ansia che si respira, che si trasmette come un virus invisibile, tra le righe di ogni notifica, nei silenzi di una call, nelle pause di scroll compulsivi, tra un social e l’altro.


È un’ansia senza oggetto definito, ma onnipresente. 

L’ansia di non farcela. Di non essere abbastanza. Di restare indietro. Di non apparire all’altezza. 

Di non poter competere in un mondo che premia l’immagine più della sostanza, la velocità più del pensiero, il possesso più della serenità.


E allora, cosa si fa? Si compra.

Non per bisogno, ma per anestetizzare l’angoscia. Si acquistano vestiti mai messi, accessori inutili, gadget identici a quelli già posseduti. 

Si spendono centinaia di euro per un cellulare nuovo che fa le stesse foto del vecchio. 

Si compra per illudersi di controllare qualcosa, di gestire l’instabilità. Di zittire l’ansia.


Il consumismo ha trovato un alleato insperato: la fragilità emotiva. 

L'ha colonizzata. E la risposta al malessere individuale non è mai un’analisi, una presa di coscienza, un cambiamento culturale. È uno sconto. È un'offerta imperdibile. È un “compralo ora”.

E guai a non trovare il prodotto sullo scaffale!

Ma se compri per fuggire da ciò che sei, non stai colmando un vuoto. Lo stai arredando.


Eppure, tutto questo non si chiama più nevrosi. 

Si chiama “trend”. Si chiama “retail therapy”. 

Si spaccia per libertà di scelta ciò che è solo una reazione condizionata e che, talvolta, arriverei a chiamare pazzia.

Si normalizza la dipendenza. Si premia il debito. 

E il risultato è una generazione piena di oggetti ma povera di pace.


Siamo circondati da merci, ma soli. Connessi, ma insicuri. Aggiornati, ma inadeguati.

L’età dell’ansia non si combatte con una carta di credito. 

Si combatte con pensiero critico, consapevolezza e – soprattutto – con la capacità di stare nel silenzio senza il bisogno compulsivo di riempirlo con qualcosa.

E questa, oggi, è forse la forma più radicale di ribellione.


Etica e algoritmi: chi programma la nostra coscienza?”

Siamo entrati ufficialmente nell'epoca dell'algoritmo 


Tutto è calcolato, suggerito, personalizzato. 

L’informazione che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i video che guardiamo, persino le persone che frequentiamo. 


Il filtro non è più umano, ma matematico. 

Eppure, proprio qui nasce la domanda: chi ha scritto l’algoritmo? E secondo quali valori?

Gli algoritmi non possono essere neutrali, perché dietro a ogni codice c’è un’intenzione. 

Dietro ogni suggerimento automatico, una scelta. Spesso invisibile. 


Decidono cosa vediamo, cosa ci viene nascosto, cosa ci viene proposto prima di tutto il resto. 

Influiscono sulla nostra percezione del mondo, sulle nostre decisioni, sulle nostre emozioni.

Ciò che una volta era dominio della coscienza, oggi rischia di essere delegato al calcolo. 

La morale, la responsabilità, l’etica: tutte cose che un algoritmo non possiede, ma che può simulare. E questo è ancora più pericoloso.

Se una macchina prende decisioni che influenzano le nostre vite – chi ottiene un mutuo, chi ha accesso a un’assicurazione, chi viene assunto – ma non è trasparente, allora non siamo più cittadini, ma soggetti di un sistema opaco.

È qui che la filosofia dovrebbe entrare a gamba tesa. 

Ma spesso arriva tardi, o resta fuori dalla stanza dei bottoni. 

Non ci si chiede più se qualcosa è giusto, ma solo se funziona. La tecnica avanza, l’etica rincorre.


Come scriveva Pasolini: «I veri analfabeti del futuro, saranno quelli che non sapranno leggere la complessità del potere». 

E il potere, oggi, si cela dietro una formula, una riga di codice, una promessa di personalizzazione.

Serve una nuova alfabetizzazione etica. 

Serve chiedersi chi controlla gli algoritmi, e a vantaggio di chi. 

Serve ridefinire i confini della libertà nell’era digitale. Perché se tutto è delegato al calcolo, l’umanità rischia di diventare una variabile irrilevante.


E allora forse è il momento di riscrivere le priorità. 

Non basta chiedere se l’intelligenza artificiale sia potente (lo è ), ma se sia giusta. 

E soprattutto, se ci stia rendendo più umani… o solo più prevedibili.



Contro la tirannia dell’orologio: elogio del tempo lento

Viviamo in un’epoca in cui la fretta è diventata virtù, e la lentezza un lusso. 

Il tempo non è più un compagno, ma un nemico. 

Si corre, si produce, si consuma, si posta, si risponde. 

In fretta. Sempre in fretta. Ma dove stiamo andando?


Siamo vittime di una società che misura il valore delle persone in base a quanto riescono a fare in poco tempo. 

Il culto dell’efficienza ha soppiantato quello del pensiero.

Il multitasking ha reso l’attenzione un bene scarso. 

Ci hanno convinti che se non sei sempre connesso, sempre aggiornato, sempre attivo, sei fuori dal gioco. Ma è un gioco truccato, che ti ruba l’unica cosa che non puoi ricomprare: il tuo tempo.


Una volta il tempo era ciclico, scandito dalle stagioni, dai ritmi della terra e della luce. 

Poi è diventato lineare, cronometrico, industriale. 

L’orologio, da strumento, si è fatto padrone. E con lui, è nata l’ansia di ottimizzare ogni secondo. 

Non c’è più spazio per la noia, per il silenzio, per l’attesa. Ogni istante va riempito. Ma riempito di cosa?

Leggiamo articoli solo se sono brevi. 

Guardiamo film mentre scorriamo lo smartphone. 

Parliamo con qualcuno mentre pensiamo ald altro.

E intanto perdiamo la capacità di stare. Di ascoltare. Di riflettere. Di vivere.


Eppure, c’è chi ha iniziato a dire basta. 

C’è un piccolo fronte silenzioso che resiste: chi riscopre la lettura lunga, chi spegne le notifiche, chi cammina senza meta, chi cucina senza timer. 

Ribelli del tempo, che non accettano di vivere con l’orologio come guinzaglio.


In fondo, non serve tornare al Medioevo. 

Basta re-imparare a distinguere il tempo speso da quello investito. 

E magari iniziare a chiederci chi, in  questa corsa continua, stia vincendo davvero.



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Fammi sapere se vuoi aggiustarlo, accorciarlo o inserire riferimenti culturali o citazioni colte.


martedì 13 maggio 2025

L’ultima piazza è diventata uno schermo

Un tempo ci si incontrava in piazza

Si discuteva, ci si accalorava, ci si confrontava. Le idee rimbalzavano vive tra i corpi, tra i volti, tra gli sguardi. Le mani si stringevano, le parole si urlavano o si sussurravano, ma erano vere, tangibili. 

Oggi la piazza è diventata uno schermo. E se da una parte ci siamo illusi di aver abbattuto le distanze, dall’altra abbiamo costruito recinti invisibili che ci tengono lontani come mai prima.


I social ci hanno promesso dialogo, ma ci hanno consegnato monologhi. 

Ogni profilo è un palco, ogni post una recita. Ognuno parla, nessuno ascolta davvero. 

Le vecchie piazze erano lente, faticose, a volte scomode, ma erano reali. 

Oggi ci basta un click per “bloccare”, per “ignorare”, per evitare lo scontro. Così ci troviamo chiusi in bolle ideologiche dove leggiamo solo ciò che conferma ciò che già pensiamo.


Un tempo, in piazza, ti trovavi accanto chi non la pensava come te. 

Dovevi farci i conti. Ora, l’algoritmo ti fa credere di essere la maggioranza, anche quando non lo sei. 

E ogni voce dissonante viene silenziata non con un confronto, ma con un gesto del pollice. Un click, un tap, una scrollata. E tutto sparisce.


Pasolini già lo intuiva: temeva la televisione perché pensava che avrebbe omologato le coscienze

Ma nemmeno lui poteva immaginare quanto l’omologazione sarebbe potuta diventare così capillare e volontaria, con ogni utente che si costruisce la sua personale prigione di conferme e like.


La piazza digitale non è neutra. 

È progettata per eccitare, per dividere, per monetizzare le nostre reazioni. 

Non ci stimola a pensare, ma a reagire. E più velocemente reagiamo, meno riflettiamo. Così, nella società della connessione perpetua, l’isolamento cresce. E il confronto si estingue.


L’ultima piazza è diventata uno schermo

Ci riflette, ma non ci unisce. Ci mostra, ma non ci rivela. 

Forse è tempo di spegnere tutto, uscire di casa, tornare a camminare a passo lento verso una piazza vera. Dove, magari, non troveremo tutti d’accordo, ma almeno troveremo qualcuno che ci ascolta.





La ripresa che non arriva (ma che ti fanno vedere lo stesso, da anni!)

Ogni trimestre porta con sé bollettini trionfali: crescita del PIL, ripresa dei consumi, fiducia delle imprese in rialzo. 

I comunicati e le prime pagine dei giornali sembrano orchestrare un unico spartito: “Va tutto bene, o comunque abbastanza bene da non lamentarsi troppo”. 

Ma mentre i numeri sorridono nelle slide, dai supermercati si esce con carrelli sempre più vuoti,, nei contratti precari si moltiplica l’incertezza, e nei sogni delle nuove generazioni si fa strada una parola che un tempo era un’eccezione e ora è la regola: rinuncia (oppure il sogno di essere il prossimo famoso influencer).

Le realtà, che vivono molti cittadini, sono l’opposto della narrazione ottimistica

I salari non crescono da anni, il potere d’acquisto diminuisce mese dopo mese, e il ceto medio si assottiglia fino quasi a scomparire. 

Le famiglie, che una volta risparmiavano, ora si indebitano per restare a galla, mentre il credito al consumo – anche a tassi esorbitanti – diventa l’unico ossigeno per chi vuol far fronte a spese primarie (e talvolta anche a quelle che non lo sono).

Nel frattempo, i media, fanno la loro parte

Le voci fuori dal coro vengono silenziate con ironia, o etichettate come disfattiste. 

E in tutto questo, a emergere, è un paese in cui il benessere è sempre più virtuale, e la sofferenza sempre più reale ma invisibile.


Pasolini, in un’intervista del 1975, disse: “Il vero fascismo è la riduzione dell’uomo a consumatore.”

Aveva capito, con largo anticipo, che la vera dittatura non sarebbe più passata attraverso manganelli e stivali, ma attraverso vetrine e spot. 

Ci illudono di vivere nel paese delle possibilità, mentre ci rendono incapaci (anche per nostra colpa, ammettiamolo!) di immaginare alternative.

La ripresa, forse, c’è davvero. Ma è selettiva, ingiusta, opaca. Non piove su tutti: si concentra in cima, mentre in basso si lotta per l’illusione di starci ancora dentro.

E alla fine, quando anche l’ultimo stipendio si sarà polverizzato nel mutuo e nella spesa, basterà un altro annuncio in prima serata per convincerci che sì, va tutto bene. 

E che se non lo è, dev’essere colpa nostra.



Lavoro 2.0: l’illusione del progresso

 Viviamo nel tempo delle promesse. 

Le nuove tecnologie dovrebbero liberarci dal lavoro, renderci più creativi, più agili, più umani. 

Le intelligenze artificiali, le piattaforme digitali, l’automazione avanzata: ogni innovazione viene presentata come un passo avanti verso un mondo migliore. 

Eppure, mai come oggi, il lavoro sembra svanire sotto i nostri piedi (anche se in troppi non se ne sono ancora accorti).


In ogni settore si parla di “ottimizzazione”, “efficientamento”, “riduzione dei costi”. 

Le imprese investono milioni in strumenti che, di fatto, eliminano posti di lavoro. 

Si celebrano le startup che “distruggono” vecchie professioni, ma si tace sul fatto che, quelle stesse professioni, davano da vivere a famiglie intere. E mentre ci raccontano che nasceranno nuovi lavori, resta il silenzio su chi, intanto, viene lasciato indietro.


Non è la prima volta che accade. E non sarà l'ultima.

Nei decenni passati — come raccontava Steinbeck — bastava un trattore per mettere sul lastrico decine di braccianti. 

Oggi bastano poche righe di codice per sostituire interi team. Allora si invocava il progresso. Oggi lo si idolatra, con una fede quasi religiosa. Ma una domanda resta sospesa: progresso per chi?

Nel frattempo, si moltiplicano le offerte di corsi online, master, webinar per “reinventarsi” 

Quasi a voler dire che la colpa è del lavoratore, se non riesce a stare al passo. M

a reinvenzione per fare cosa, esattamente? Consegnare cibo, generare contenuti per social, fare il rider del pensiero?


Lavoriamo di più, siamo più flessibili, ma anche più poveri, più soli, più facilmente sostituibili. 

E ci viene chiesto di sorridere, di essere “resilienti”, di non lamentarci. Di credere che tutto questo sia normale, anzi, giusto.

Siamo sicuri che sia solo una fase di transizione? O è già il modello definitivo?

E chiudo questo articolo con una frase del geniale Henry Ford:

C'è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti 



Sostenibili a parole, insostenibili nei fatti

Sostenibilità:  Signore e signori! Vi presento la parola più abusata degli ultimi vent’anni!!!

Ovunque la si trovi, ovunque la si invochi. 

Nei consigli d’amministrazione, nei discorsi politici, nelle pubblicità delle multinazionali. 

Sembra essere diventata il lasciapassare etico per qualunque progetto, qualunque prodotto, qualunque decisione. Basta appiccicare un’etichetta verde e il gioco è fatto.


Eppure, qualcosa non mi torna.

Perché, mentre ci parlano di auto elettriche come salvatrici del pianeta, nessuno racconta l’impatto ambientale delle miniere di litio e cobalto, sfruttate spesso in condizioni disumane. 

Mentre ci esortano a fare la raccolta differenziata con lo zelo di un soldatino ecologico, interi container di rifiuti occidentali continuano a finire in Asia e in Africa, fuori dalla vista e dalla coscienza. 

Mentre si tassano le emissioni delle piccole imprese, le grandi industrie inquinanti continuano a godere di deroghe, incentivi, “compensazioni” spesso fittizie. 

E intanto, i fondi ESG — quelli “etici” — investono tranquillamente in colossi energetici che, di verde, hanno solo la brochure.


Il risultato? Un sistema che si muove all’insegna della contraddizione. 

Un ambientalismo da vetrina, più preoccupato di apparire che di essere. 

Una narrazione che parla di futuro sostenibile, ma che intanto continua a bruciare il presente. A chi giova questa ipocrisia? Di certo non al pianeta.


La verità è che le politiche ambientali, così come spesso vengono disegnate, non mirano a un cambiamento reale 

Ma a una gestione controllata del senso di colpa collettivo. 

Il cittadino viene educato a sentirsi responsabile per ogni bottiglia di plastica, ogni lavatrice fuori orario, ogni acquisto non bio. 

Ma il vero nodo, quello sistemico, resta intoccabile. Non si toccano gli interessi consolidati. Non si ristruttura davvero l'economia. Si lavora sull’effetto, non sulla causa.


E allora viene il dubbio: non è che anche in questo caso la sostenibilità sia solo una forma aggiornata di marketing?

Certo, il cambiamento parte anche dal basso. 

Ma non solo da lì! 

E senza coerenza dall’alto, senza un disegno strutturale e onesto, le scelte individuali restano gocce nel deserto. Servono politiche che non siano pensate per fare bella figura nei congressi internazionali, ma per reggere alla prova dei fatti, dei numeri, del tempo.


La sostenibilità vera richiede sacrifici, investimenti lungimiranti, e soprattutto verità

Richiede il coraggio di mettere in discussione modelli economici e produttivi che hanno prosperato sull’insostenibilità. 

Ma finché il verde sarà solo un colore utile per vendere di più, resteremo prigionieri di un’illusione ecologica ben confezionata. E il pianeta, nel frattempo, continuerà a pagare il conto.


E alla fine?

Sarà sempre tutta colpa di quello che va in giro con la macchina a diesel, o della sciura Maria che non ha cambiato la caldaia!




lunedì 12 maggio 2025

Il caro vita e l’ostentazione: il nuovo oppio del popolo

George Orwell l’aveva previsto nella sua opera più celebre. 

La manipolazione del pensiero, il controllo delle menti, l’omologazione forzata del desiderio e della realtà. 

Ma non fu solo finzione letteraria. 

Anche Trujillo, descritto magistralmente da Mario Vargas Llosa ne La festa del caprone, esercitava un dominio totale sul popolo dominicano, non solo nelle azioni ma perfino nei pensieri. 

La sua dittatura non si limitava a leggi e repressioni: pretendeva consenso interiore, devozione assoluta, verità riscritte e interiorizzate. 

Come se il controllo non fosse completo finché qualcuno osava ancora pensare in modo autonomo.


Oggi non serve più la repressione fisica. 

Oggi si reprime col desiderio. 

Ti convincono che valga più apparire che essere, più consumare che costruire. 

E se non te lo puoi puoi permettere? Nessun problema: c’è il pagamento a rate. 

Dio è morto, sì, ma nelle auto prese a rate, nei cellulari di ultima generazione comprati con sacrifici assurdi, per non sembrare fuori moda.


Il benessere è diventato una messa in scena.

E, nella corsa all’ostentazione, anche chi è povero può sembrare ricco. Basta una carta di credito.

Ci siamo arrivati, ma con un tocco glamour: oggi il Grande Fratello ti lascia scegliere il colore dell’iPhone mentre ti convince che, se sei povero, è colpa tua.

E tu ci credi. Basta che nessuno si accorga che sei povero, almeno finché non ti staccano la luce.


L’illusione del benessere (a rate)

La carta di credito è diventata il lasciapassare per l’illusione del benessere.

Non importa se il conto langue, se ogni fine mese è un salto mortale: ciò che conta è apparire, mostrarsi vincenti, anche solo nell’immagine filtrata di uno smartphone.

Una società che non premia la coerenza o il sacrificio silenzioso, ma l’ostentazione rumorosa. 

E così il successo è diventato un travestimento da indossare, anche se a rate.


Francesco Guccini lo aveva intuito con feroce lucidità: “Dio è morto nelle auto prese a rate”. 

Una frase che oggi risuona come un verdetto. 

Perché in quelle parole c’è tutta la disperazione, di chi ha sostituito la sostanza con il debito, la dignità con lo status symbol.

Dio è morto, sì — e al suo posto c’è l’ultimo cellulare -  sfoggiato con orgoglio ma pagato col fiato corto.


Morale?

Chi risparmia con disciplina viene deriso, chi si indebita per apparire viene applaudito. 

Ma la realtà è spietata: i primi diventano liberi, i secondi restano schiavi.

E la verità, spiace dirlo, è che non c’è niente di rivoluzionario nel vivere sopra le proprie possibilità. 

C’è solo la banalità del fallimento mascherata da moda.

E sia ben chiaro, oltre ogni fraintendimento,  che il pirla moderno non è colui che non ha nulla, ma colui che, pur avendo poco o nulla…finge di avere tutto.




La cultura della popolarità: il suicidio del pensiero critico

 La società ci dice che dobbiamo brillare, che dobbiamo emergere.

 Il nostro valore sembra essere legato alla nostra visibilità, a quanto riusciamo a farci notare in un mondo che corre veloce. 

Brillare è diventato sinonimo di successo, di realizzazione, di felicità. 

Ma a ben vedere, questo concetto di "brillare" sembra più una trappola che una vera aspirazione

È una luce che ci acceca, un riflettore puntato sulla nostra esistenza che, anziché farci vedere chi siamo davvero, finisce per nascondere tutto ciò che c'è di più autentico in noi. 

La ricerca spasmodica del brillante, del visibile, non ci insegna a pensare in modo indipendente, a scoprire la nostra strada, a capire cosa vogliamo veramente dalla vita. 

Ci insegna piuttosto a conformarci, a seguirne le regole, ad accettare, senza riflettere, che il nostro valore dipenda da quanto possiamo apparire.


E ora viene il dubbio che mi turba 

Una domanda che cresce dentro di me: siamo davvero sicuri che la società si sia dimenticata di insegnarci a pensare in modo indipendente? 

E se, invece, fosse voluto? Se fosse proprio questa la strategia? Se fosse necessario che non pensassimo, per evitare che ci facessimo troppe domande? 

Un pensiero critico potrebbe spingerci a mettere in discussione le fondamenta su cui poggia il nostro mondo, le stesse fondamenta su cui si costruiscono il consumismo, l’obbligo di essere sempre in competizione, il bisogno di apparire.

La verità è che non siamo mai stati educati a pensare veramente 

Non siamo stati mai davvero invitati a comprendere il valore di un pensiero libero. 

In un mondo in cui si premia l'apparenza, in cui si promuove la superficialità, dove la bellezza esteriore viene anteposta a quella interiore, il pensiero autonomo diventa pericoloso. 

Perché? Perché un individuo che pensa in modo indipendente non può essere facilmente controllato, non può essere facilmente indirizzato, manipolato. 

Ecco perché, forse, a nessuno conviene che si impari davvero a pensare.


A volte, sembra che il vero obiettivo sia proprio questo: fare in modo che ci arrendiamo all'idea che il pensiero critico non sia necessario

Che ci basti essere condotti dalla corrente di quello che ci viene detto, dai messaggi che ci arrivano da ogni angolo, dalla pubblicità, dai social, dalla politica. 

"Non è importante cosa pensi, è importante cosa mostri". 

È più facile tenere le persone a bada quando non si pongono domande, quando non si sforzano di scoprire la verità, dietro le illusioni che ci vengono offerte come realtà. 

Il nostro mondo, che ci chiede di brillare, ci sta anche chiedendo di smettere di pensare. E questo è pericoloso. Perché quando smettiamo di pensare, smettiamo di essere liberi.

Il paradosso, ovviamente, è che tutti vogliono brillare 

Ma nessuno si chiede più se il riflesso, che vediamo nello specchio, sia davvero il nostro. 

Se quello che ci viene detto di desiderare, sia davvero ciò che vogliamo, o se siamo solo marionette, tirate da fili invisibili che ci spingono a volere sempre più, sempre meglio, sempre più visibile. 

In fondo, non è che la libertà, la vera libertà, sia proprio un pensiero indipendente che si fa strada nel buio, senza bisogno di brillare per essere visto?

Quindi, mi chiedo, siamo davvero liberi in questa corsa al brillante, o siamo soltanto prigionieri di un sistema che ci insegna a non pensare per tenerci sotto controllo?





Il paradosso dell'apparenza e la ricerca della ricchezza

Non è difficile apparire ricchi, almeno non per tutti. 

Basta una carta di credito, un po' di astuzia, e l'apparenza fa il resto. 

La gente si illude di aver raggiunto lo status sociale, di appartenere alla schiera dei "ricchi", perché sfoggia un iPhone di ultima generazione, magari un vestito firmato, o un'auto costosa. 

È un gioco che ha ormai stancato: è facile apparire ricchi, basta solo non essere troppo pigri con i pagamenti a rate.


Tuttavia, la vera ricchezza non si costruisce così. 

È facile sognare di possedere una Ferrari, ma molto più complicato è riuscire ad acquistare una casa senza essere sommersi dai debiti. 

La realtà, quella cruda, è che molti si arrendono alla tentazione di pagamenti dilazionati, senza pensare alle conseguenze sul lungo periodo. 


I consumi impulsivi, legati al desiderio di apparire più di quanto si è, non portano mai alla libertà economica. 

Anzi, sono il primo passo verso la schiavitù finanziaria.

Pensate a quanto costa ogni anno un iPhone nuovo. Il modello top di gamma di Apple, che ogni anno diventa più costoso, è il simbolo di questo paradosso. 

Se avessimo messo da parte i soldi che si spendono annualmente per acquistare l'ultimo modello, avremmo potuti  ottenere qualcosa di ben diverso, qualcosa che davvero aumenta il nostro valore. 


Un esempio? Quei soldi spesi in rate per il cellulare sarebbero potuti essere stati investiti proprio nelle azioni Apple.

Nel 2015, l'iPhone  costava circa 799 euro. 

Se l'eterno acquirente di lunga data, nel 2015 avesse investito gli stessi 799 euro in azioni Apple, oggi, tenendo conto dell'aumento del valore delle azioni (più di 7 volte il loro valore iniziale), avrebbe avuto un ritorno di circa 5.500 euro. 

Sarebbe passato da un singolo acquisto consumistico a un vero investimento, che avrebbe dato i suoi frutti nel tempo.

È uno dei miei più grandi crucci non averlo capito, una grandissima mancanza non essere sceso in profondità, essere stato pigro e non aver studiato. 

Fu, la mia, una stoltezza imperdonabile, per  non aver approfittato, nonostante la realtà di file chilometriche fosse a mia conoscenza.

Ma questa è solo la punta dell'iceberg. 

L'intuizione finanziaria è ben diversa dal desiderio di "consumare l'illusione", come molti fanno. 

È triste, vero? Non per non aver mai acquistato l'ultimo iPhone, ma per non averla  avuta  quell' intuizione, e vedere crescere quel piccolo investimento nel tempo.


Il paradosso è che, mentre tanti si indebitano per un simbolo di status, in realtà potrebbero costruire la propria vera ricchezza con pochi passi. 

Ma, evidentemente, non è facile. Non è facile partire dal basso e arrivare in alto. 

La vera sfida è scegliere di non essere prigionieri della pubblicità, del consumo e delle apparenze. 

Se è difficile diventare ricchi, lo è ancora di più sfuggire alla trappola dell'apparenza.


Ma, anche tra noi comuni mortali, c’è una differenza fondamentale. 

Mentre chi è povero e risparmiatore,  ha la possibilità di cambiare la sua situazione, chi invece, pur essendo povero, non rinuncia alle grandi firme e ai consumi ostentati, non solo è povero, non solo si preclude ogni possibilità, ma è anche pirla.