Un tempo il lavoro era identità.
Era riscatto, appartenenza, orgoglio.
Oggi, per molti, è solo una necessità. Una lotta quotidiana per non affondare.
Una prestazione misurata a ore, pagata a cottimo, svuotata di senso.
Ti chiedono flessibilità, ma intendono precarietà.
Ti promettono crescita, ma ti offrono turni, call, contratti a termine.
Ti parlano di team, ma sei solo. Isolato dietro uno schermo, o dietro una cassa.
E mentre il lavoro perde dignità, perde anche il potere di definire chi siamo.
Non ti chiedono più "Cosa fai?", ma "Cosa possiedi?".
La tua identità non è più costruita sul fare, ma sull’apparire.
In questa distorsione, il lavoro non è più luogo di costruzione del sé, ma solo strumento per finanziare un'immagine da esibire.
E così resti senza radici. Un ingranaggio che gira, ma non sa più perché.
Senza identità, senza riconoscimento, il lavoro diventa fatica muta.
E la società ti illude che se non sei realizzato, è colpa tua.
Ma forse, il vero fallimento è di un sistema che ha smesso di dare significato al lavoro.
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