Me lo dicono spesso.
I miei libri sono troppo diretti (che poi, perché sarebbero diretti?). Non cercano il consenso. Non sono commerciali. Creano divisione.
Insomma! Un disastro!
E allora?
Non li ho scritti per entrare nelle classifiche, né per accarezzare il lettore.
Li ho scritti per dire quello che penso. Punto.
Viviamo in un tempo in cui dire ciò che si pensa è diventato un atto quasi eversivo.
La parola d’ordine è "piacere": piacere al pubblico, piacere all’algoritmo, piacere a chi si potrebbe dichiarare offeso per ogni sillaba fuori posto.
Ma io non vendo carezze. Né parole in saldo.
Chi cerca il compromesso costante, finisce per scrivere frasi vuote. Chi rincorre l’approvazione, si trasforma in un’eco.
Io no.
Se ciò che scrivo divide, allora funziona. Se non è “commerciale”, allora è onesto. Se non ti rassicura, forse ti sta dicendo la verità.
Non mi interessa compiacere. Mi interessa restare integro.
E se ti dà fastidio, vuol dire che ho colpito nel segno.
E se non mi sopporterai e non ti piacerò, pazienza, non sarai mai un mio lettore.
Tu, intanto, continua a dedicarti alla compiacenza altrui.
Fallo anche per me, già che ci sei.
Intanto, il tempo scorre. Ma soprattutto, la vita passa.
Mentre ti chiedi se sei piaciuto, qualcuno là fuori ha detto quello che pensa.
Mentre misuri ogni parola per non disturbare, qualcuno vive. Sbaglia. Esagera. Ma c’è.
Tu invece? Ti sei nascosto talmente bene che forse non ti ritrovi più.
Non ho consigli da dare, non sono uno psicologo
Posso solo esternare una mia opinione:
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