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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

giovedì 15 maggio 2025

La follia della scelta – Quando tutto è possibile, nulla ha senso

Viviamo nel tempo dell’abbondanza apparente. 

Ogni giorno, in ogni ambito, siamo sommersi da un diluvio di possibilità. 

Al supermercato ci sono dieci varianti di ogni prodotto, su Netflix mille film che non guarderemo mai, sui social milioni di vite da cui lasciarci suggestionare. 

Sullo sfondo, una promessa implicita: più opzioni hai, più sei libero.


Ma è davvero così?

La libertà di scegliere è diventata una trappola dorata. 

Perché non è accompagnata da un criterio, da un’educazione al discernimento. 

Siamo liberi di scegliere tutto, ma senza sapere cosa vogliamo davvero. 

Il risultato è l’ansia. E il paradosso: più possibilità abbiamo, più sentiamo di sbagliare.


La psicologia lo ha chiamato paradosso della scelta. 

Il filosofo Zygmunt Bauman parlava di “vite liquide” che scorrono senza forma, disgregate da un eccesso di decisioni reversibili. 

Ogni opzione scartata diventa un piccolo lutto, ogni scelta fatta è un dubbio che si accumula.


Non è più l’epoca del “non posso”, ma del “potrei”. 

E questo è il suo veleno. Perché la vera follia non è l’assenza di possibilità, ma il loro eccesso. 

Una follia sottile, elegante, vestita da libertà.


A ben guardare, la nostra epoca ha qualcosa di claustrofobico. 

Viviamo nello spazio aperto delle infinite alternative, ma spesso come criceti in una ruota: liberi, certo, di scegliere il gusto dello yogurt o il colore dell’iPhone, ma non la qualità del nostro tempo o la profondità delle nostre relazioni.

E allora la domanda è semplice, ma scomoda: siamo davvero liberi, o siamo solo consumatori di scelte?


Il tempo rubato – Cronometrati dalla produttività

C’è stato un tempo in cui il tempo era umano. 

Aveva il ritmo delle stagioni, dei passi, del silenzio. 

Poi arrivò l’era della produzione, poi quella della prestazione. 

E ora, quella dell’ossessione.


Oggi non ci è più concesso essere: dobbiamo performare.

Ogni minuto non "utilizzato" è un peccato moderno. 

L’ozio è stato cancellato dal vocabolario etico, e chi lo rivendica viene guardato con sospetto. “Che cosa fai?” non chiede più come stai, ma quanto rendi.


In questo mondo cronometrato, l’icona che meglio ci rappresenta non è un volto sereno. 

Bensì quello smarrito e meccanizzato di Charlot in Tempi moderni: inghiottito da ingranaggi che girano più veloci di lui, a rincorrere bulloni come noi rincorriamo mail, notifiche, KPI, followers, monetizzazione.


Ma i tempi moderni sono diventati ipermoderni. 

Gli ingranaggi oggi non sono più fisici, ma digitali: algoritmi che ci profilano, app che misurano il sonno, il battito, i passi, i minuti persi sullo schermo. 

Persino il riposo dev’essere efficiente.


Byung-Chul Han, in un saggio divenuto ormai riferimento, scriveva che "la società della stanchezza".

Quella in cui ci auto-sfruttiamo, in nome di una libertà che in realtà è solo ansia da prestazione. 

Non serve più un padrone: basta un obiettivo.


Così il tempo libero è diventato "tempo da impiegare bene". 

Una pausa non è più tale se non produce qualcosa: un contenuto, un networking, una crescita. 

E se ti prendi una mattinata per guardare il cielo? Sei un fallito. 

Se disinstalli i social? Antisociale. Se rallenti? Rimani indietro. Ma dietro a cosa, nessuno lo sa.


Eppure Pasolini ci aveva avvertiti: quando il tempo non serve più a raccontare ma solo a consumare, qualcosa muore. 

E non è solo la cultura. È l’anima.

Forse dovremmo ricominciare da Chaplin: da quel suo passo scoordinato, buffo, eppure profondamente umano. 

Ricominciare a difendere il diritto a perdere tempo. Che poi, forse, è il modo migliore per ritrovarlo.


mercoledì 14 maggio 2025

Sempre connessi, mai presenti

Siamo ovunque, tranne che qui. 

Le notifiche ci chiamano, gli aggiornamenti ci rincorrono, i feed scorrono. 

Viviamo in un eterno presente digitale, che ci ruba la presenza reale.


La connessione perenne, da promessa di libertà, è diventata una nuova forma di dipendenza. 

Non riusciamo più a stare fermi, né soli, né in silenzio. 

Ogni attimo di vuoto dev’essere riempito da uno schermo, da un input, da una voce virtuale.


La cosa più rivoluzionaria oggi non è l’iperconnessione, ma il contrario: scollegarsi. 

Stare in silenzio. Guardare negli occhi. Ritrovare l’autenticità nei gesti semplici, non filtrati.

Eppure, ogni volta che ci proviamo, sentiamo l’astinenza. 

È l’ansia da disconnessione, un vuoto che ci mette a nudo.


Un tempo si diceva “il silenzio è d’oro”, oggi sembra quasi una minaccia.

Ma se non riusciamo a essere presenti nel momento che viviamo, in che vita siamo immersi davvero?

Viviamo un’epoca dove il rumore è diventato la normalità. Ma forse il vero coraggio è spegnere. Tacere. Ascoltare.

Perché la presenza, quella vera, non ha bisogno di Wi-Fi

L’età dell’ansia (e dello shopping compulsivo)

Viviamo nell’età dell’ansia. 

Non quella episodica, passeggera, ma quella cronica, collettiva, quasi strutturale. 

È un’ansia che si respira, che si trasmette come un virus invisibile, tra le righe di ogni notifica, nei silenzi di una call, nelle pause di scroll compulsivi, tra un social e l’altro.


È un’ansia senza oggetto definito, ma onnipresente. 

L’ansia di non farcela. Di non essere abbastanza. Di restare indietro. Di non apparire all’altezza. 

Di non poter competere in un mondo che premia l’immagine più della sostanza, la velocità più del pensiero, il possesso più della serenità.


E allora, cosa si fa? Si compra.

Non per bisogno, ma per anestetizzare l’angoscia. Si acquistano vestiti mai messi, accessori inutili, gadget identici a quelli già posseduti. 

Si spendono centinaia di euro per un cellulare nuovo che fa le stesse foto del vecchio. 

Si compra per illudersi di controllare qualcosa, di gestire l’instabilità. Di zittire l’ansia.


Il consumismo ha trovato un alleato insperato: la fragilità emotiva. 

L'ha colonizzata. E la risposta al malessere individuale non è mai un’analisi, una presa di coscienza, un cambiamento culturale. È uno sconto. È un'offerta imperdibile. È un “compralo ora”.

E guai a non trovare il prodotto sullo scaffale!

Ma se compri per fuggire da ciò che sei, non stai colmando un vuoto. Lo stai arredando.


Eppure, tutto questo non si chiama più nevrosi. 

Si chiama “trend”. Si chiama “retail therapy”. 

Si spaccia per libertà di scelta ciò che è solo una reazione condizionata e che, talvolta, arriverei a chiamare pazzia.

Si normalizza la dipendenza. Si premia il debito. 

E il risultato è una generazione piena di oggetti ma povera di pace.


Siamo circondati da merci, ma soli. Connessi, ma insicuri. Aggiornati, ma inadeguati.

L’età dell’ansia non si combatte con una carta di credito. 

Si combatte con pensiero critico, consapevolezza e – soprattutto – con la capacità di stare nel silenzio senza il bisogno compulsivo di riempirlo con qualcosa.

E questa, oggi, è forse la forma più radicale di ribellione.


Etica e algoritmi: chi programma la nostra coscienza?”

Siamo entrati ufficialmente nell'epoca dell'algoritmo 


Tutto è calcolato, suggerito, personalizzato. 

L’informazione che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i video che guardiamo, persino le persone che frequentiamo. 


Il filtro non è più umano, ma matematico. 

Eppure, proprio qui nasce la domanda: chi ha scritto l’algoritmo? E secondo quali valori?

Gli algoritmi non possono essere neutrali, perché dietro a ogni codice c’è un’intenzione. 

Dietro ogni suggerimento automatico, una scelta. Spesso invisibile. 


Decidono cosa vediamo, cosa ci viene nascosto, cosa ci viene proposto prima di tutto il resto. 

Influiscono sulla nostra percezione del mondo, sulle nostre decisioni, sulle nostre emozioni.

Ciò che una volta era dominio della coscienza, oggi rischia di essere delegato al calcolo. 

La morale, la responsabilità, l’etica: tutte cose che un algoritmo non possiede, ma che può simulare. E questo è ancora più pericoloso.

Se una macchina prende decisioni che influenzano le nostre vite – chi ottiene un mutuo, chi ha accesso a un’assicurazione, chi viene assunto – ma non è trasparente, allora non siamo più cittadini, ma soggetti di un sistema opaco.

È qui che la filosofia dovrebbe entrare a gamba tesa. 

Ma spesso arriva tardi, o resta fuori dalla stanza dei bottoni. 

Non ci si chiede più se qualcosa è giusto, ma solo se funziona. La tecnica avanza, l’etica rincorre.


Come scriveva Pasolini: «I veri analfabeti del futuro, saranno quelli che non sapranno leggere la complessità del potere». 

E il potere, oggi, si cela dietro una formula, una riga di codice, una promessa di personalizzazione.

Serve una nuova alfabetizzazione etica. 

Serve chiedersi chi controlla gli algoritmi, e a vantaggio di chi. 

Serve ridefinire i confini della libertà nell’era digitale. Perché se tutto è delegato al calcolo, l’umanità rischia di diventare una variabile irrilevante.


E allora forse è il momento di riscrivere le priorità. 

Non basta chiedere se l’intelligenza artificiale sia potente (lo è ), ma se sia giusta. 

E soprattutto, se ci stia rendendo più umani… o solo più prevedibili.



Contro la tirannia dell’orologio: elogio del tempo lento

Viviamo in un’epoca in cui la fretta è diventata virtù, e la lentezza un lusso. 

Il tempo non è più un compagno, ma un nemico. 

Si corre, si produce, si consuma, si posta, si risponde. 

In fretta. Sempre in fretta. Ma dove stiamo andando?


Siamo vittime di una società che misura il valore delle persone in base a quanto riescono a fare in poco tempo. 

Il culto dell’efficienza ha soppiantato quello del pensiero.

Il multitasking ha reso l’attenzione un bene scarso. 

Ci hanno convinti che se non sei sempre connesso, sempre aggiornato, sempre attivo, sei fuori dal gioco. Ma è un gioco truccato, che ti ruba l’unica cosa che non puoi ricomprare: il tuo tempo.


Una volta il tempo era ciclico, scandito dalle stagioni, dai ritmi della terra e della luce. 

Poi è diventato lineare, cronometrico, industriale. 

L’orologio, da strumento, si è fatto padrone. E con lui, è nata l’ansia di ottimizzare ogni secondo. 

Non c’è più spazio per la noia, per il silenzio, per l’attesa. Ogni istante va riempito. Ma riempito di cosa?

Leggiamo articoli solo se sono brevi. 

Guardiamo film mentre scorriamo lo smartphone. 

Parliamo con qualcuno mentre pensiamo ald altro.

E intanto perdiamo la capacità di stare. Di ascoltare. Di riflettere. Di vivere.


Eppure, c’è chi ha iniziato a dire basta. 

C’è un piccolo fronte silenzioso che resiste: chi riscopre la lettura lunga, chi spegne le notifiche, chi cammina senza meta, chi cucina senza timer. 

Ribelli del tempo, che non accettano di vivere con l’orologio come guinzaglio.


In fondo, non serve tornare al Medioevo. 

Basta re-imparare a distinguere il tempo speso da quello investito. 

E magari iniziare a chiederci chi, in  questa corsa continua, stia vincendo davvero.



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Fammi sapere se vuoi aggiustarlo, accorciarlo o inserire riferimenti culturali o citazioni colte.


martedì 13 maggio 2025

L’ultima piazza è diventata uno schermo

Un tempo ci si incontrava in piazza

Si discuteva, ci si accalorava, ci si confrontava. Le idee rimbalzavano vive tra i corpi, tra i volti, tra gli sguardi. Le mani si stringevano, le parole si urlavano o si sussurravano, ma erano vere, tangibili. 

Oggi la piazza è diventata uno schermo. E se da una parte ci siamo illusi di aver abbattuto le distanze, dall’altra abbiamo costruito recinti invisibili che ci tengono lontani come mai prima.


I social ci hanno promesso dialogo, ma ci hanno consegnato monologhi. 

Ogni profilo è un palco, ogni post una recita. Ognuno parla, nessuno ascolta davvero. 

Le vecchie piazze erano lente, faticose, a volte scomode, ma erano reali. 

Oggi ci basta un click per “bloccare”, per “ignorare”, per evitare lo scontro. Così ci troviamo chiusi in bolle ideologiche dove leggiamo solo ciò che conferma ciò che già pensiamo.


Un tempo, in piazza, ti trovavi accanto chi non la pensava come te. 

Dovevi farci i conti. Ora, l’algoritmo ti fa credere di essere la maggioranza, anche quando non lo sei. 

E ogni voce dissonante viene silenziata non con un confronto, ma con un gesto del pollice. Un click, un tap, una scrollata. E tutto sparisce.


Pasolini già lo intuiva: temeva la televisione perché pensava che avrebbe omologato le coscienze

Ma nemmeno lui poteva immaginare quanto l’omologazione sarebbe potuta diventare così capillare e volontaria, con ogni utente che si costruisce la sua personale prigione di conferme e like.


La piazza digitale non è neutra. 

È progettata per eccitare, per dividere, per monetizzare le nostre reazioni. 

Non ci stimola a pensare, ma a reagire. E più velocemente reagiamo, meno riflettiamo. Così, nella società della connessione perpetua, l’isolamento cresce. E il confronto si estingue.


L’ultima piazza è diventata uno schermo

Ci riflette, ma non ci unisce. Ci mostra, ma non ci rivela. 

Forse è tempo di spegnere tutto, uscire di casa, tornare a camminare a passo lento verso una piazza vera. Dove, magari, non troveremo tutti d’accordo, ma almeno troveremo qualcuno che ci ascolta.