Bitcoin.

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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

venerdì 16 maggio 2025

L’eccesso che disinforma

Mai come oggi siamo stati così informati. 

E mai come oggi siamo stati così confusi. 

Notifiche, aggiornamenti in tempo reale, breaking news, feed personalizzati, opinioni travestite da fatti. 

È la sovra-informazione, che non ci rende più consapevoli, ma più disorientati.


Il paradosso è chiaro: l’informazione è ovunque, ma la conoscenza è sempre più rara. 

Sappiamo tutto in superficie, nulla in profondità. 

E mentre rincorriamo l’ultima notizia, perdiamo il senso delle cose. 

Le idee non maturano più, si consumano. Il tempo del pensiero è stato sostituito dalla velocità dello scroll.


Ogni giorno ci troviamo esposti a un flusso costante di dati, opinioni, interpretazioni. 

Ma chi ha il tempo – o la voglia – di verificarle? Di contestualizzare? Di ragionare davvero? 


L’informazione istantanea ha un prezzo. 

L’incapacità di distinguere tra ciò che è importante e ciò che è solo rumoroso.

La sovra-informazione ci anestetizza. 

È come il rumore bianco: sempre presente, ma ormai inascoltato. 

Produce passività, non coscienza. Reattività, non riflessione. 

Si finisce col credere di sapere, quando in realtà si è solo sommersi.


La verità, oggi, non si cerca: si consuma

E spesso la si scambia con la prima cosa che conferma ciò che già pensiamo. È il trionfo del bias, dell’emozione, dell’algoritmo.

Forse, allora, il vero atto rivoluzionario è filtrare. Disconnettersi. Scegliere il silenzio, come atto di selezione. 

Leggere meno, ma meglio. Cercare, ogni giorno, di sapere di meno… ma capire di più.




Il suono del silenzio

Viviamo in un mondo dove il rumore è diventato la norma. 

Scorriamo ossessivamente notizie, notifiche, feed. 

Parliamo per riempire, ascoltiamo per rispondere, ma quasi mai per capire. 

In questa corsa, il silenzio è diventato un’eresia. 

Fa paura, perché obbliga ad ascoltarsi.


Eppure, è proprio nel silenzio che abita la lucidità. 

È lì che la mente si riordina, che i pensieri non gridano ma si sedimentano. 

 Nel silenzio, i gesti tornano ad avere peso. Il respiro si fa profondo. La parola, quando arriva, è necessaria. È vera.


Il silenzio non è solo assenza di suono. 

È resistenza. È il rifiuto di dover sempre apparire, dire, commentare. 

È un atto politico, intimo e radicale. 

È scegliere di non urlare quando tutti lo fanno. È guardare il cielo, mentre il mondo resta inchiodato a uno schermo.


Charlie Chaplin, con i suoi film muti, ci ha insegnato che anche senza parole si può comunicare. 

Forse meglio. Forse di più. Forse più a fondo. 

Non a caso, quando decise di parlare – nel Grande Dittatore – lo fece con una potenza che ancora oggi scuote le coscienze.


Dopo ogni parola detta, ogni contenuto pubblicato, ogni posizione presa… ci vuole un tempo di vuoto. 

Un tempo per fare spazio. Perché il rumore logora, ma il silenzio trasforma.

In un’epoca in cui tutti parlano, chi tace ascolta. E chi ascolta, forse, capisce.


giovedì 15 maggio 2025

Bitcoin sottochiave: segnali di accumulo e la grande domanda in agguato

Non è una notizia qualunque quella riportata da Cointelegraph.

Più di un miliardo di dollari in Bitcoin è stato ritirato da Coinbase in una singola giornata. 

Una delle maggiori fuoriuscite di sempre. 

Nessun commento ufficiale, nessuna dichiarazione roboante. 

Solo un movimento silenzioso, ma pesantissimo. 

Silenti come lo sono, del resto, tutti i movimenti di rilievo.

Da parte di chi? Non è dato saperlo, ma in casi simili la risposta più plausibile è sempre la stessa: istituzionali.


Cosa vuol dire, però, spostare enormi quantità di Bitcoin dagli exchange a wallet esterni?

Non necessariamente che qualcosa sta per accadere, ma potrebbe essere un segnale. 

Una scelta che potrebbe indicare una volontà di accumulo, di conservazione a lungo termine, di hold, come si dice in gergo. 

Quando i BTC lasciano gli exchange, diminuiscono i volumi disponibili per essere venduti nel breve termine. 

Questo potrebbe ridurre la pressione di offerta sul mercato e, di conseguenza, avere un impatto sui prezzi.

Siamo ancora nel campo delle ipotesi, ed è giusto mantenere prudenza. 


Ma non si può ignorare il fatto che un simile movimento potrebbe essere interpretato come segnale di fiducia, o addirittura preludio a una fase di domanda crescente.

Se la narrazione di Bitcoin come "bene rifugio digitale" dovesse consolidarsi in un contesto macro incerto, con inflazione ancora volatile e tassi d’interesse ballerini, l'interesse per l’asset potrebbe salire ancora. 

Soprattutto se la scarsità percepita aumenta. E in questo caso, non si tratta solo di parole: i numeri parlano chiaro.


Qualcuno ha chiuso la cassaforte.

Perché? Non lo sappiamo (lo potrebbero solo intuire, coloro che ne sono a conoscenza)

Ma se è stato fatto, forse è perché dentro ci ha messo qualcosa a cui tiene molto.

Link e titolo relativi all’articolo di riferimento?

Eccoli!

Coinbase registra un deflusso di 1 miliardo in BTC: segnale di domanda istituzionale? – Cointelegraph

Buona lettura 


L’ansia dell’immortalità – Quando il sogno di vivere per sempre diventa incubo quotidiano

Non temiamo più la morte.

O, forse, non ce lo concediamo. 

In un mondo che esalta la performance, l'efficienza e l'eterna giovinezza, la morte è diventata l'ultimo tabù. 

L’unica vera offesa. 

Qualcosa da nascondere, da rimandare, da combattere con ogni mezzo.


E allora si moltiplicano le promesse di immortalità. 

Tecnologie che conservano i dati del nostro cervello, start-up che inseguono l’elisir di lunga vita, estetica che cerca di congelare il tempo. 

L’invecchiamento non è più un processo naturale, ma un errore da correggere. 

Come se la vita avesse senso solo se può durare per sempre.


Ma c’è un problema: mentre cerchiamo di sfuggire alla morte, stiamo smettendo di vivere davvero.

L’ossessione dell’immortalità produce una nuova forma di ansia. 

Un’ansia sottile, moderna, che ci costringe a rincorrere costantemente l’idea di una vita perfetta, sana, ininterrotta. 

Come se ogni ruga fosse una sconfitta, ogni pausa un tradimento. 

Come se il tempo non fosse più qualcosa da abitare, ma da conquistare.


Il paradosso è feroce: più rincorriamo la durata, più smarriamo il senso

Perdiamo l’intensità. Ci dimentichiamo che vivere ha valore proprio perché finisce. 

Che ogni scelta ha peso perché non possiamo tornare indietro. Che ogni istante è irripetibile, e per questo prezioso.


È qui che la riflessione torna necessaria: siamo davvero più liberi se potenzialmente eterni? 

O rischiamo di diventare schiavi di un tempo illimitato, ma svuotato?

Forse dovremmo imparare da chi, nella consapevolezza della fine, ha trovato la forza di vivere con autenticità. 

Forse l’immortalità, più che una conquista, è una tentazione. 

E forse è nella finitezza che la vita trova il suo significato più profondo.

La follia della scelta – Quando tutto è possibile, nulla ha senso

Viviamo nel tempo dell’abbondanza apparente. 

Ogni giorno, in ogni ambito, siamo sommersi da un diluvio di possibilità. 

Al supermercato ci sono dieci varianti di ogni prodotto, su Netflix mille film che non guarderemo mai, sui social milioni di vite da cui lasciarci suggestionare. 

Sullo sfondo, una promessa implicita: più opzioni hai, più sei libero.


Ma è davvero così?

La libertà di scegliere è diventata una trappola dorata. 

Perché non è accompagnata da un criterio, da un’educazione al discernimento. 

Siamo liberi di scegliere tutto, ma senza sapere cosa vogliamo davvero. 

Il risultato è l’ansia. E il paradosso: più possibilità abbiamo, più sentiamo di sbagliare.


La psicologia lo ha chiamato paradosso della scelta. 

Il filosofo Zygmunt Bauman parlava di “vite liquide” che scorrono senza forma, disgregate da un eccesso di decisioni reversibili. 

Ogni opzione scartata diventa un piccolo lutto, ogni scelta fatta è un dubbio che si accumula.


Non è più l’epoca del “non posso”, ma del “potrei”. 

E questo è il suo veleno. Perché la vera follia non è l’assenza di possibilità, ma il loro eccesso. 

Una follia sottile, elegante, vestita da libertà.


A ben guardare, la nostra epoca ha qualcosa di claustrofobico. 

Viviamo nello spazio aperto delle infinite alternative, ma spesso come criceti in una ruota: liberi, certo, di scegliere il gusto dello yogurt o il colore dell’iPhone, ma non la qualità del nostro tempo o la profondità delle nostre relazioni.

E allora la domanda è semplice, ma scomoda: siamo davvero liberi, o siamo solo consumatori di scelte?


Il tempo rubato – Cronometrati dalla produttività

C’è stato un tempo in cui il tempo era umano. 

Aveva il ritmo delle stagioni, dei passi, del silenzio. 

Poi arrivò l’era della produzione, poi quella della prestazione. 

E ora, quella dell’ossessione.


Oggi non ci è più concesso essere: dobbiamo performare.

Ogni minuto non "utilizzato" è un peccato moderno. 

L’ozio è stato cancellato dal vocabolario etico, e chi lo rivendica viene guardato con sospetto. “Che cosa fai?” non chiede più come stai, ma quanto rendi.


In questo mondo cronometrato, l’icona che meglio ci rappresenta non è un volto sereno. 

Bensì quello smarrito e meccanizzato di Charlot in Tempi moderni: inghiottito da ingranaggi che girano più veloci di lui, a rincorrere bulloni come noi rincorriamo mail, notifiche, KPI, followers, monetizzazione.


Ma i tempi moderni sono diventati ipermoderni. 

Gli ingranaggi oggi non sono più fisici, ma digitali: algoritmi che ci profilano, app che misurano il sonno, il battito, i passi, i minuti persi sullo schermo. 

Persino il riposo dev’essere efficiente.


Byung-Chul Han, in un saggio divenuto ormai riferimento, scriveva che "la società della stanchezza".

Quella in cui ci auto-sfruttiamo, in nome di una libertà che in realtà è solo ansia da prestazione. 

Non serve più un padrone: basta un obiettivo.


Così il tempo libero è diventato "tempo da impiegare bene". 

Una pausa non è più tale se non produce qualcosa: un contenuto, un networking, una crescita. 

E se ti prendi una mattinata per guardare il cielo? Sei un fallito. 

Se disinstalli i social? Antisociale. Se rallenti? Rimani indietro. Ma dietro a cosa, nessuno lo sa.


Eppure Pasolini ci aveva avvertiti: quando il tempo non serve più a raccontare ma solo a consumare, qualcosa muore. 

E non è solo la cultura. È l’anima.

Forse dovremmo ricominciare da Chaplin: da quel suo passo scoordinato, buffo, eppure profondamente umano. 

Ricominciare a difendere il diritto a perdere tempo. Che poi, forse, è il modo migliore per ritrovarlo.


mercoledì 14 maggio 2025

Sempre connessi, mai presenti

Siamo ovunque, tranne che qui. 

Le notifiche ci chiamano, gli aggiornamenti ci rincorrono, i feed scorrono. 

Viviamo in un eterno presente digitale, che ci ruba la presenza reale.


La connessione perenne, da promessa di libertà, è diventata una nuova forma di dipendenza. 

Non riusciamo più a stare fermi, né soli, né in silenzio. 

Ogni attimo di vuoto dev’essere riempito da uno schermo, da un input, da una voce virtuale.


La cosa più rivoluzionaria oggi non è l’iperconnessione, ma il contrario: scollegarsi. 

Stare in silenzio. Guardare negli occhi. Ritrovare l’autenticità nei gesti semplici, non filtrati.

Eppure, ogni volta che ci proviamo, sentiamo l’astinenza. 

È l’ansia da disconnessione, un vuoto che ci mette a nudo.


Un tempo si diceva “il silenzio è d’oro”, oggi sembra quasi una minaccia.

Ma se non riusciamo a essere presenti nel momento che viviamo, in che vita siamo immersi davvero?

Viviamo un’epoca dove il rumore è diventato la normalità. Ma forse il vero coraggio è spegnere. Tacere. Ascoltare.

Perché la presenza, quella vera, non ha bisogno di Wi-Fi