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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

mercoledì 14 maggio 2025

L’età dell’ansia (e dello shopping compulsivo)

Viviamo nell’età dell’ansia. 

Non quella episodica, passeggera, ma quella cronica, collettiva, quasi strutturale. 

È un’ansia che si respira, che si trasmette come un virus invisibile, tra le righe di ogni notifica, nei silenzi di una call, nelle pause di scroll compulsivi, tra un social e l’altro.


È un’ansia senza oggetto definito, ma onnipresente. 

L’ansia di non farcela. Di non essere abbastanza. Di restare indietro. Di non apparire all’altezza. 

Di non poter competere in un mondo che premia l’immagine più della sostanza, la velocità più del pensiero, il possesso più della serenità.


E allora, cosa si fa? Si compra.

Non per bisogno, ma per anestetizzare l’angoscia. Si acquistano vestiti mai messi, accessori inutili, gadget identici a quelli già posseduti. 

Si spendono centinaia di euro per un cellulare nuovo che fa le stesse foto del vecchio. 

Si compra per illudersi di controllare qualcosa, di gestire l’instabilità. Di zittire l’ansia.


Il consumismo ha trovato un alleato insperato: la fragilità emotiva. 

L'ha colonizzata. E la risposta al malessere individuale non è mai un’analisi, una presa di coscienza, un cambiamento culturale. È uno sconto. È un'offerta imperdibile. È un “compralo ora”.

E guai a non trovare il prodotto sullo scaffale!

Ma se compri per fuggire da ciò che sei, non stai colmando un vuoto. Lo stai arredando.


Eppure, tutto questo non si chiama più nevrosi. 

Si chiama “trend”. Si chiama “retail therapy”. 

Si spaccia per libertà di scelta ciò che è solo una reazione condizionata e che, talvolta, arriverei a chiamare pazzia.

Si normalizza la dipendenza. Si premia il debito. 

E il risultato è una generazione piena di oggetti ma povera di pace.


Siamo circondati da merci, ma soli. Connessi, ma insicuri. Aggiornati, ma inadeguati.

L’età dell’ansia non si combatte con una carta di credito. 

Si combatte con pensiero critico, consapevolezza e – soprattutto – con la capacità di stare nel silenzio senza il bisogno compulsivo di riempirlo con qualcosa.

E questa, oggi, è forse la forma più radicale di ribellione.


Etica e algoritmi: chi programma la nostra coscienza?”

Siamo entrati ufficialmente nell'epoca dell'algoritmo 


Tutto è calcolato, suggerito, personalizzato. 

L’informazione che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i video che guardiamo, persino le persone che frequentiamo. 


Il filtro non è più umano, ma matematico. 

Eppure, proprio qui nasce la domanda: chi ha scritto l’algoritmo? E secondo quali valori?

Gli algoritmi non possono essere neutrali, perché dietro a ogni codice c’è un’intenzione. 

Dietro ogni suggerimento automatico, una scelta. Spesso invisibile. 


Decidono cosa vediamo, cosa ci viene nascosto, cosa ci viene proposto prima di tutto il resto. 

Influiscono sulla nostra percezione del mondo, sulle nostre decisioni, sulle nostre emozioni.

Ciò che una volta era dominio della coscienza, oggi rischia di essere delegato al calcolo. 

La morale, la responsabilità, l’etica: tutte cose che un algoritmo non possiede, ma che può simulare. E questo è ancora più pericoloso.

Se una macchina prende decisioni che influenzano le nostre vite – chi ottiene un mutuo, chi ha accesso a un’assicurazione, chi viene assunto – ma non è trasparente, allora non siamo più cittadini, ma soggetti di un sistema opaco.

È qui che la filosofia dovrebbe entrare a gamba tesa. 

Ma spesso arriva tardi, o resta fuori dalla stanza dei bottoni. 

Non ci si chiede più se qualcosa è giusto, ma solo se funziona. La tecnica avanza, l’etica rincorre.


Come scriveva Pasolini: «I veri analfabeti del futuro, saranno quelli che non sapranno leggere la complessità del potere». 

E il potere, oggi, si cela dietro una formula, una riga di codice, una promessa di personalizzazione.

Serve una nuova alfabetizzazione etica. 

Serve chiedersi chi controlla gli algoritmi, e a vantaggio di chi. 

Serve ridefinire i confini della libertà nell’era digitale. Perché se tutto è delegato al calcolo, l’umanità rischia di diventare una variabile irrilevante.


E allora forse è il momento di riscrivere le priorità. 

Non basta chiedere se l’intelligenza artificiale sia potente (lo è ), ma se sia giusta. 

E soprattutto, se ci stia rendendo più umani… o solo più prevedibili.



Contro la tirannia dell’orologio: elogio del tempo lento

Viviamo in un’epoca in cui la fretta è diventata virtù, e la lentezza un lusso. 

Il tempo non è più un compagno, ma un nemico. 

Si corre, si produce, si consuma, si posta, si risponde. 

In fretta. Sempre in fretta. Ma dove stiamo andando?


Siamo vittime di una società che misura il valore delle persone in base a quanto riescono a fare in poco tempo. 

Il culto dell’efficienza ha soppiantato quello del pensiero.

Il multitasking ha reso l’attenzione un bene scarso. 

Ci hanno convinti che se non sei sempre connesso, sempre aggiornato, sempre attivo, sei fuori dal gioco. Ma è un gioco truccato, che ti ruba l’unica cosa che non puoi ricomprare: il tuo tempo.


Una volta il tempo era ciclico, scandito dalle stagioni, dai ritmi della terra e della luce. 

Poi è diventato lineare, cronometrico, industriale. 

L’orologio, da strumento, si è fatto padrone. E con lui, è nata l’ansia di ottimizzare ogni secondo. 

Non c’è più spazio per la noia, per il silenzio, per l’attesa. Ogni istante va riempito. Ma riempito di cosa?

Leggiamo articoli solo se sono brevi. 

Guardiamo film mentre scorriamo lo smartphone. 

Parliamo con qualcuno mentre pensiamo ald altro.

E intanto perdiamo la capacità di stare. Di ascoltare. Di riflettere. Di vivere.


Eppure, c’è chi ha iniziato a dire basta. 

C’è un piccolo fronte silenzioso che resiste: chi riscopre la lettura lunga, chi spegne le notifiche, chi cammina senza meta, chi cucina senza timer. 

Ribelli del tempo, che non accettano di vivere con l’orologio come guinzaglio.


In fondo, non serve tornare al Medioevo. 

Basta re-imparare a distinguere il tempo speso da quello investito. 

E magari iniziare a chiederci chi, in  questa corsa continua, stia vincendo davvero.



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Fammi sapere se vuoi aggiustarlo, accorciarlo o inserire riferimenti culturali o citazioni colte.


martedì 13 maggio 2025

L’ultima piazza è diventata uno schermo

Un tempo ci si incontrava in piazza

Si discuteva, ci si accalorava, ci si confrontava. Le idee rimbalzavano vive tra i corpi, tra i volti, tra gli sguardi. Le mani si stringevano, le parole si urlavano o si sussurravano, ma erano vere, tangibili. 

Oggi la piazza è diventata uno schermo. E se da una parte ci siamo illusi di aver abbattuto le distanze, dall’altra abbiamo costruito recinti invisibili che ci tengono lontani come mai prima.


I social ci hanno promesso dialogo, ma ci hanno consegnato monologhi. 

Ogni profilo è un palco, ogni post una recita. Ognuno parla, nessuno ascolta davvero. 

Le vecchie piazze erano lente, faticose, a volte scomode, ma erano reali. 

Oggi ci basta un click per “bloccare”, per “ignorare”, per evitare lo scontro. Così ci troviamo chiusi in bolle ideologiche dove leggiamo solo ciò che conferma ciò che già pensiamo.


Un tempo, in piazza, ti trovavi accanto chi non la pensava come te. 

Dovevi farci i conti. Ora, l’algoritmo ti fa credere di essere la maggioranza, anche quando non lo sei. 

E ogni voce dissonante viene silenziata non con un confronto, ma con un gesto del pollice. Un click, un tap, una scrollata. E tutto sparisce.


Pasolini già lo intuiva: temeva la televisione perché pensava che avrebbe omologato le coscienze

Ma nemmeno lui poteva immaginare quanto l’omologazione sarebbe potuta diventare così capillare e volontaria, con ogni utente che si costruisce la sua personale prigione di conferme e like.


La piazza digitale non è neutra. 

È progettata per eccitare, per dividere, per monetizzare le nostre reazioni. 

Non ci stimola a pensare, ma a reagire. E più velocemente reagiamo, meno riflettiamo. Così, nella società della connessione perpetua, l’isolamento cresce. E il confronto si estingue.


L’ultima piazza è diventata uno schermo

Ci riflette, ma non ci unisce. Ci mostra, ma non ci rivela. 

Forse è tempo di spegnere tutto, uscire di casa, tornare a camminare a passo lento verso una piazza vera. Dove, magari, non troveremo tutti d’accordo, ma almeno troveremo qualcuno che ci ascolta.





La ripresa che non arriva (ma che ti fanno vedere lo stesso, da anni!)

Ogni trimestre porta con sé bollettini trionfali: crescita del PIL, ripresa dei consumi, fiducia delle imprese in rialzo. 

I comunicati e le prime pagine dei giornali sembrano orchestrare un unico spartito: “Va tutto bene, o comunque abbastanza bene da non lamentarsi troppo”. 

Ma mentre i numeri sorridono nelle slide, dai supermercati si esce con carrelli sempre più vuoti,, nei contratti precari si moltiplica l’incertezza, e nei sogni delle nuove generazioni si fa strada una parola che un tempo era un’eccezione e ora è la regola: rinuncia (oppure il sogno di essere il prossimo famoso influencer).

Le realtà, che vivono molti cittadini, sono l’opposto della narrazione ottimistica

I salari non crescono da anni, il potere d’acquisto diminuisce mese dopo mese, e il ceto medio si assottiglia fino quasi a scomparire. 

Le famiglie, che una volta risparmiavano, ora si indebitano per restare a galla, mentre il credito al consumo – anche a tassi esorbitanti – diventa l’unico ossigeno per chi vuol far fronte a spese primarie (e talvolta anche a quelle che non lo sono).

Nel frattempo, i media, fanno la loro parte

Le voci fuori dal coro vengono silenziate con ironia, o etichettate come disfattiste. 

E in tutto questo, a emergere, è un paese in cui il benessere è sempre più virtuale, e la sofferenza sempre più reale ma invisibile.


Pasolini, in un’intervista del 1975, disse: “Il vero fascismo è la riduzione dell’uomo a consumatore.”

Aveva capito, con largo anticipo, che la vera dittatura non sarebbe più passata attraverso manganelli e stivali, ma attraverso vetrine e spot. 

Ci illudono di vivere nel paese delle possibilità, mentre ci rendono incapaci (anche per nostra colpa, ammettiamolo!) di immaginare alternative.

La ripresa, forse, c’è davvero. Ma è selettiva, ingiusta, opaca. Non piove su tutti: si concentra in cima, mentre in basso si lotta per l’illusione di starci ancora dentro.

E alla fine, quando anche l’ultimo stipendio si sarà polverizzato nel mutuo e nella spesa, basterà un altro annuncio in prima serata per convincerci che sì, va tutto bene. 

E che se non lo è, dev’essere colpa nostra.



Lavoro 2.0: l’illusione del progresso

 Viviamo nel tempo delle promesse. 

Le nuove tecnologie dovrebbero liberarci dal lavoro, renderci più creativi, più agili, più umani. 

Le intelligenze artificiali, le piattaforme digitali, l’automazione avanzata: ogni innovazione viene presentata come un passo avanti verso un mondo migliore. 

Eppure, mai come oggi, il lavoro sembra svanire sotto i nostri piedi (anche se in troppi non se ne sono ancora accorti).


In ogni settore si parla di “ottimizzazione”, “efficientamento”, “riduzione dei costi”. 

Le imprese investono milioni in strumenti che, di fatto, eliminano posti di lavoro. 

Si celebrano le startup che “distruggono” vecchie professioni, ma si tace sul fatto che, quelle stesse professioni, davano da vivere a famiglie intere. E mentre ci raccontano che nasceranno nuovi lavori, resta il silenzio su chi, intanto, viene lasciato indietro.


Non è la prima volta che accade. E non sarà l'ultima.

Nei decenni passati — come raccontava Steinbeck — bastava un trattore per mettere sul lastrico decine di braccianti. 

Oggi bastano poche righe di codice per sostituire interi team. Allora si invocava il progresso. Oggi lo si idolatra, con una fede quasi religiosa. Ma una domanda resta sospesa: progresso per chi?

Nel frattempo, si moltiplicano le offerte di corsi online, master, webinar per “reinventarsi” 

Quasi a voler dire che la colpa è del lavoratore, se non riesce a stare al passo. M

a reinvenzione per fare cosa, esattamente? Consegnare cibo, generare contenuti per social, fare il rider del pensiero?


Lavoriamo di più, siamo più flessibili, ma anche più poveri, più soli, più facilmente sostituibili. 

E ci viene chiesto di sorridere, di essere “resilienti”, di non lamentarci. Di credere che tutto questo sia normale, anzi, giusto.

Siamo sicuri che sia solo una fase di transizione? O è già il modello definitivo?

E chiudo questo articolo con una frase del geniale Henry Ford:

C'è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti 



Sostenibili a parole, insostenibili nei fatti

Sostenibilità:  Signore e signori! Vi presento la parola più abusata degli ultimi vent’anni!!!

Ovunque la si trovi, ovunque la si invochi. 

Nei consigli d’amministrazione, nei discorsi politici, nelle pubblicità delle multinazionali. 

Sembra essere diventata il lasciapassare etico per qualunque progetto, qualunque prodotto, qualunque decisione. Basta appiccicare un’etichetta verde e il gioco è fatto.


Eppure, qualcosa non mi torna.

Perché, mentre ci parlano di auto elettriche come salvatrici del pianeta, nessuno racconta l’impatto ambientale delle miniere di litio e cobalto, sfruttate spesso in condizioni disumane. 

Mentre ci esortano a fare la raccolta differenziata con lo zelo di un soldatino ecologico, interi container di rifiuti occidentali continuano a finire in Asia e in Africa, fuori dalla vista e dalla coscienza. 

Mentre si tassano le emissioni delle piccole imprese, le grandi industrie inquinanti continuano a godere di deroghe, incentivi, “compensazioni” spesso fittizie. 

E intanto, i fondi ESG — quelli “etici” — investono tranquillamente in colossi energetici che, di verde, hanno solo la brochure.


Il risultato? Un sistema che si muove all’insegna della contraddizione. 

Un ambientalismo da vetrina, più preoccupato di apparire che di essere. 

Una narrazione che parla di futuro sostenibile, ma che intanto continua a bruciare il presente. A chi giova questa ipocrisia? Di certo non al pianeta.


La verità è che le politiche ambientali, così come spesso vengono disegnate, non mirano a un cambiamento reale 

Ma a una gestione controllata del senso di colpa collettivo. 

Il cittadino viene educato a sentirsi responsabile per ogni bottiglia di plastica, ogni lavatrice fuori orario, ogni acquisto non bio. 

Ma il vero nodo, quello sistemico, resta intoccabile. Non si toccano gli interessi consolidati. Non si ristruttura davvero l'economia. Si lavora sull’effetto, non sulla causa.


E allora viene il dubbio: non è che anche in questo caso la sostenibilità sia solo una forma aggiornata di marketing?

Certo, il cambiamento parte anche dal basso. 

Ma non solo da lì! 

E senza coerenza dall’alto, senza un disegno strutturale e onesto, le scelte individuali restano gocce nel deserto. Servono politiche che non siano pensate per fare bella figura nei congressi internazionali, ma per reggere alla prova dei fatti, dei numeri, del tempo.


La sostenibilità vera richiede sacrifici, investimenti lungimiranti, e soprattutto verità

Richiede il coraggio di mettere in discussione modelli economici e produttivi che hanno prosperato sull’insostenibilità. 

Ma finché il verde sarà solo un colore utile per vendere di più, resteremo prigionieri di un’illusione ecologica ben confezionata. E il pianeta, nel frattempo, continuerà a pagare il conto.


E alla fine?

Sarà sempre tutta colpa di quello che va in giro con la macchina a diesel, o della sciura Maria che non ha cambiato la caldaia!