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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

domenica 18 maggio 2025

Il tempo rubato dai dispositivi

Non ce ne siamo accorti subito. 

All’inizio era pratico, comodo, utile. 

Poi è diventato costante, pervasivo, irrinunciabile. 

I dispositivi digitali – smartphone, tablet, orologi intelligenti – sono entrati nella nostra vita con la promessa di farci risparmiare tempo. 


In realtà, ce l’hanno portato via.

Non è solo una questione di ore passate davanti a uno schermo, ma della qualità di quel tempo. 

L’attenzione viene continuamente frazionata, interrotta, risucchiata da notifiche, messaggi, aggiornamenti, algoritmi pensati per tenerci lì. Presi. Distratti. Connessi eppure lontani da tutto ciò che conta davvero.


Lo psichiatra Paolo Crepet ha lanciato più volte l'allarme 

Stiamo crescendo generazioni che non sanno più uscire di casa. 

Che preferiscono la sicurezza di una camera e uno schermo, alla libertà incerta del mondo reale. 

È l’abitudine che anestetizza, la ripetizione che paralizza. 

Si perdono capacità relazionali, si annulla il desiderio, si rinuncia al rischio. 

Ma senza rischio non esiste crescita. Né identità.


Forse è tempo di disconnettere per ritrovare il tempo. 

Non quello dei device, ma il nostro.

Perché se non scegli tu a cosa dare attenzione, qualcun altro l’ha già scelto per te.

E stai vivendo la tua vita con il timer di qualcun altro.


L’abitazione che anestetizza

Una volta la casa era rifugio. 

Oggi, troppo spesso, è narcosi. Ci chiudiamo dentro pensando di proteggerci dal mondo, e invece ci isoliamo da noi stessi.

Non è solo una questione architettonica, ma culturale. 

Le abitazioni moderne – specialmente nei contesti urbani – sono pensate per sedare, non per stimolare. 

TV sempre accesa, assistenti vocali che completano le frasi, climatizzatori che rendono ogni stagione uguale all’altra. 

Le finestre restano chiuse, il silenzio è bandito, la solitudine coperta dal rumore di fondo. 


E intanto, fuori, il mondo cambia. Ma noi non ce ne accorgiamo.

Paolo Crepet lo dice chiaramente: “Chi non esce più di casa ha smesso di cercare”. 

E in effetti, ci stiamo spegnendo nella comodità. 

Pensiamo che il benessere sia assenza di stimoli, che la tranquillità sia assenza di conflitti. 

Invece, dice Crepet, “la vita vera è fatta di inciampi, di errori, di passioni”. 

Ma se eviti tutto questo, se resti dentro, se ti fai bastare il telecomando e il food delivery, non vivi: sopravvivi.


La casa diventa una culla ovattata dove tutto è sotto controllo. 

Un luogo dove anestetizzare le emozioni, rinviare le decisioni, disconnettersi dalla realtà. 

Ci sediamo sul divano dopo giornate fatte di iper connessione e corse a vuoto, e lo chiamiamo “relax”. 

In realtà, spesso è solo stanchezza travestita.


E mentre i dispositivi ci coccolano e le app ci leggono nel pensiero, perdiamo la capacità di scegliere. 

E di pensare. Perché chi si abitua a non uscire – non solo di casa, ma da sé – finisce per non distinguere più tra il comfort e la prigione.

“L’abitudine è una droga potentissima”, dice ancora Crepet. 

Ci si abitua a tutto, anche all’assenza di vita. 

Anche al fatto che fuori piove, che il vicino fa rumore, che il mondo ti sfida. Eppure è proprio lì che si cresce, non nel bozzolo che chiamiamo casa.

Siamo davvero sicuri che “stare bene” significhi non sentire più niente?



Il valore perduto della semplicità

In un’epoca in cui tutto corre, si moltiplica e si complica, la semplicità sembra un concetto fuori moda. 

Eppure è proprio nella semplicità che risiede una delle forme più profonde di intelligenza. 

Saper togliere, scegliere, sottrarre: è questa l’arte dimenticata.


Viviamo dentro una giungla di stimoli.

Continui inviti a volere di più, a desiderare tutto, ad accumulare esperienze, oggetti, relazioni, notifiche. 

Ma nella rincorsa al troppo, abbiamo perso il gusto dell’essenziale.


Semplicità non vuol dire povertà, né rinuncia, al contrario fa rima con ricchezza.

Vuol dire lucidità. Vuol dire riconoscere ciò che conta davvero. Vuol dire non riempire il vuoto con l’inutile. È un atto estetico e insieme etico.

Essere semplici in un mondo che ci vuole complessi e sovraccarichi è una forma di resistenza. 

Significa sottrarsi al ricatto del superfluo, alla bulimia dell’apparire, all’ansia del confronto continuo.


Chi sa vivere con il necessario, è un vincente. 

Chi sa desiderare meno, possiede di più. Non perché ha, ma perché sa dare valore. 

La semplicità è la chiave per ritrovare un rapporto sano con il tempo, con le cose, con gli altri, con se stessi.


E c’è chi la semplicità non la predica soltanto, ma la vive. 

Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo, abita ancora nella stessa casa acquistata nel 1959 e guida un’auto usata di quasi dieci anni, perché per le sue esigenze è più che sufficiente. 

Non ostenta, non rincorre il lusso per il lusso. È coerente con ciò che dice.

Non  perché sia tirchio, ma perché è intelligente e disciplinato.

Ed è  proprio quando il mondo ci spinge a comprare l’ennesimo oggetto che promette felicità, vale la pena ricordare proprio le sue parole:

“Quando compri cose che non ti servono, presto sarai costretto a vendere cose che ti servono.”


La semplicità, in fondo, è anche un atto di intelligenza economica. E di libertà.



Il pensiero pigro

Viviamo in un’epoca in cui tutto è a portata di click. 

Notizie, opinioni, analisi, giudizi, sentenze.

 Mai come oggi è stato così facile “sapere” senza davvero conoscere, “capire” senza realmente comprendere. 


Ma dietro questa comodità si nasconde una trappola sottile e pericolosa: quella del pensiero pigro.

Il pensiero pigro è quello che si accontenta del titolo, del post, del commento letto per caso. 

È quello che scorre distrattamente tra decine di contenuti e si convince di avere una visione chiara del mondo. 

È quello che rifiuta la complessità, che fugge l’approfondimento, che si rifugia nelle certezze preconfezionate perché fare domande costa fatica.


E così ci ritroviamo a ripetere slogan, a schierarci per appartenenza, a credere senza dubitare, a condannare senza analizzare. 

Il pensiero pigro è l’alleato perfetto di chi vuole manipolare, semplificare, controllare. 

È il terreno fertile dove crescono le menzogne, le polarizzazioni, i fanatismi.


Perché pensare davvero è scomodo. 

Richiede tempo, letture, silenzi, errori. 

Pensare davvero vuol dire ammettere che si può cambiare idea, che forse si era in torto, che la realtà è più sfumata di quanto sembri. 

Pensare davvero è un atto di coraggio e di libertà.


Il paradosso è che oggi, con tutte le informazioni a disposizione, è diventato più difficile essere pensanti. 

Non per mancanza di stimoli, ma per eccesso. 

Il sovraccarico informativo ha atrofizzato la nostra capacità di elaborare. Invece di orientarci, ci perdiamo.


E allora, forse, oggi il vero atto rivoluzionario non è “dire la propria”, ma imparare di nuovo a pensare. 

Con lentezza, con profondità, con fatica.

 Anche a costo di restare in silenzio per un po’. Perché è solo dal pensiero lucido che può nascere una parola che abbia senso.

E questo, lo sanno bene, fa molta più paura di mille urla vuote.



sabato 17 maggio 2025

Il lavoro che non dà identità

Un tempo il lavoro era identità. 

Era riscatto, appartenenza, orgoglio.

Oggi, per molti, è solo una necessità. Una lotta quotidiana per non affondare.

Una prestazione misurata a ore, pagata a cottimo, svuotata di senso.


Ti chiedono flessibilità, ma intendono precarietà.

Ti promettono crescita, ma ti offrono turni, call, contratti a termine.

Ti parlano di team, ma sei solo. Isolato dietro uno schermo, o dietro una cassa.


E mentre il lavoro perde dignità, perde anche il potere di definire chi siamo.

Non ti chiedono più "Cosa fai?", ma "Cosa possiedi?".

La tua identità non è più costruita sul fare, ma sull’apparire.

In questa distorsione, il lavoro non è più luogo di costruzione del sé, ma solo strumento per finanziare un'immagine da esibire.


E così resti senza radici. Un ingranaggio che gira, ma non sa più perché.

Senza identità, senza riconoscimento, il lavoro diventa fatica muta.

E la società ti illude che se non sei realizzato, è colpa tua.

Ma forse, il vero fallimento è di un sistema che ha smesso di dare significato al lavoro.



L’economia della solitudine

Abbiamo barattato la compagnia con la connessione.

Ma nessun abbraccio passa attraverso uno schermo.

Viviamo nell’epoca in cui la solitudine è diventata un’opportunità… di business.

Ci vendono compagnia in abbonamento, supporto emotivo in formato premium, amicizia on demand. 


Paghi, e ti sembra di non essere solo.

Ti senti visto, ascoltato, forse perfino amato. 

Ma è un’illusione algoritmica, confezionata per monetizzare il tuo vuoto.

E mentre ci fanno credere che basti un like per sentirsi parte di qualcosa, l’industria dell’intrattenimento, della salute mentale e dei social media ingrassa sulle nostre relazioni evaporate.


La verità? Ci stiamo disabituando al contatto umano.

Non siamo più capaci di stare con gli altri, e neppure con noi stessi.

Ma se tutto può essere comprato, anche l’affetto, allora la solitudine non è più una condizione: è una strategia.

È funzionale. Produce dipendenza. Genera profitto.


Perché un essere umano solo è più fragile. E un consumatore fragile… consuma di più.




L’informazione che non informa

Ci sommergono di notizie, ma ci lasciano ignoranti.

Ci inseguono notifiche, breaking news, analisi, dati. Ma non capiamo. Non approfondiamo. Non ricordiamo.


È l’informazione che non informa, ma distrae.

Non illumina, ma confonde.

Non libera, ma manipola.


Ci dicono tutto, eppure non sappiamo più nulla.

E intanto si spegne il pensiero critico, si eclissa la verità, si celebra la superficialità.

Abbiamo accesso a ogni cosa, ma ci sfugge il senso.