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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

lunedì 19 maggio 2025

Indignati e immobili: la nuova comfort zone

Indignarsi oggi è semplice. 

Basta un tweet, un titolo letto al volo, un post condiviso con rabbia. 

Siamo tutti pronti a puntare il dito, ma pochi a muovere un dito.


Sant’Agostino diceva che la speranza nasce da due figli: l’indignazione e il coraggio di cambiare. 

Il secondo, lo abbiamo perso per strada.

Siamo professionisti dell’indignazione, ma dilettanti dell’azione.

Perché indignarsi costa poco. Cambiare, invece, costa tutto.


Professionisti dell’indignazione (sterile)

Viviamo in un’epoca in cui l’indignazione è diventata una posa. 

Un gesto teatrale, istantaneo, compulsivo, che si consuma in uno scroll, in una reaction, in un commento infuocato. 

Ci si indigna per tutto, ma quasi mai si fa qualcosa davvero. 

Si resta spettatori seduti su un trono immaginario, convinti che basti puntare il dito per cambiare il mondo.


Eppure Sant’Agostino diceva che la speranza è fatta di due bellissimi figli: l’indignazione e il coraggio. 

L’indignazione per come vanno le cose, e il coraggio per cambiarle.

Oggi, di indignazione ne abbiamo da vendere. 

Ma il coraggio? L’azione? Il mettersi in discussione, il cambiare qualcosa nel nostro piccolo, anche solo spegnendo il telefono e ascoltando davvero chi ci parla?


Non ci manca la voce. Ci manca la coerenza.

E allora basta con l’indignazione in offerta speciale. 

Serve tornare ad agire. Perché chi si indigna soltanto, alla lunga, diventa complice. 

E il mondo non lo cambiano i più arrabbiati, ma i più determinati.



Educati a non fallire

Ci hanno educati con l'ossessione alla perfezione 

Il voto alto, la condotta irreprensibile, il lavoro sicuro. 

Ogni sbaglio doveva essere evitato, nascosto, dimenticato. 


Ma è proprio lì, in quegli inciampi che ci insegnano qualcosa, che nasce la forza vera.

In Italia il fallimento è una macchia. 

In America, un curriculum. Lì puoi cadere, rialzarti, e nessuno ti guarda come un perdente. 

Qui, se fallisci una volta, te lo porti dietro come un marchio a fuoco. 

E così ci abituiamo a non rischiare, a non tentare, a restare immobili.


Siamo stati educati a non fallire, ma così facendo ci hanno impedito di imparare a vincere.

Ma un dubbio mi assale

"Forse non ci hanno mai insegnato a fallire… perché qualcuno aveva troppa paura che un giorno imparassimo a rialzarci?"




La forza delle piccole cose

Ci hanno convinti che la felicità sia altrove

In un altrove lontano, rumoroso, straordinario. 

Ma il vero cambiamento — quello che costruisce, che educa, che trasforma — non fa rumore. 

È fatto di gesti piccoli, ripetuti. 


Sia chiaro, non è la routine sterile e anestetizzante che spegne il pensiero. 

Ma quella scelta con lucidità che, giorno dopo giorno, allena la volontà, affina la coscienza e dà forma al carattere.

Nel mondo dei click e delle notifiche, serve coraggio per restare fermi su ciò che conta.

Serve forza per essere coerenti quando tutto spinge verso l’eccezionalità apparente.




domenica 18 maggio 2025

Il tempo rubato dai dispositivi

Non ce ne siamo accorti subito. 

All’inizio era pratico, comodo, utile. 

Poi è diventato costante, pervasivo, irrinunciabile. 

I dispositivi digitali – smartphone, tablet, orologi intelligenti – sono entrati nella nostra vita con la promessa di farci risparmiare tempo. 


In realtà, ce l’hanno portato via.

Non è solo una questione di ore passate davanti a uno schermo, ma della qualità di quel tempo. 

L’attenzione viene continuamente frazionata, interrotta, risucchiata da notifiche, messaggi, aggiornamenti, algoritmi pensati per tenerci lì. Presi. Distratti. Connessi eppure lontani da tutto ciò che conta davvero.


Lo psichiatra Paolo Crepet ha lanciato più volte l'allarme 

Stiamo crescendo generazioni che non sanno più uscire di casa. 

Che preferiscono la sicurezza di una camera e uno schermo, alla libertà incerta del mondo reale. 

È l’abitudine che anestetizza, la ripetizione che paralizza. 

Si perdono capacità relazionali, si annulla il desiderio, si rinuncia al rischio. 

Ma senza rischio non esiste crescita. Né identità.


Forse è tempo di disconnettere per ritrovare il tempo. 

Non quello dei device, ma il nostro.

Perché se non scegli tu a cosa dare attenzione, qualcun altro l’ha già scelto per te.

E stai vivendo la tua vita con il timer di qualcun altro.


L’abitazione che anestetizza

Una volta la casa era rifugio. 

Oggi, troppo spesso, è narcosi. Ci chiudiamo dentro pensando di proteggerci dal mondo, e invece ci isoliamo da noi stessi.

Non è solo una questione architettonica, ma culturale. 

Le abitazioni moderne – specialmente nei contesti urbani – sono pensate per sedare, non per stimolare. 

TV sempre accesa, assistenti vocali che completano le frasi, climatizzatori che rendono ogni stagione uguale all’altra. 

Le finestre restano chiuse, il silenzio è bandito, la solitudine coperta dal rumore di fondo. 


E intanto, fuori, il mondo cambia. Ma noi non ce ne accorgiamo.

Paolo Crepet lo dice chiaramente: “Chi non esce più di casa ha smesso di cercare”. 

E in effetti, ci stiamo spegnendo nella comodità. 

Pensiamo che il benessere sia assenza di stimoli, che la tranquillità sia assenza di conflitti. 

Invece, dice Crepet, “la vita vera è fatta di inciampi, di errori, di passioni”. 

Ma se eviti tutto questo, se resti dentro, se ti fai bastare il telecomando e il food delivery, non vivi: sopravvivi.


La casa diventa una culla ovattata dove tutto è sotto controllo. 

Un luogo dove anestetizzare le emozioni, rinviare le decisioni, disconnettersi dalla realtà. 

Ci sediamo sul divano dopo giornate fatte di iper connessione e corse a vuoto, e lo chiamiamo “relax”. 

In realtà, spesso è solo stanchezza travestita.


E mentre i dispositivi ci coccolano e le app ci leggono nel pensiero, perdiamo la capacità di scegliere. 

E di pensare. Perché chi si abitua a non uscire – non solo di casa, ma da sé – finisce per non distinguere più tra il comfort e la prigione.

“L’abitudine è una droga potentissima”, dice ancora Crepet. 

Ci si abitua a tutto, anche all’assenza di vita. 

Anche al fatto che fuori piove, che il vicino fa rumore, che il mondo ti sfida. Eppure è proprio lì che si cresce, non nel bozzolo che chiamiamo casa.

Siamo davvero sicuri che “stare bene” significhi non sentire più niente?



Il valore perduto della semplicità

In un’epoca in cui tutto corre, si moltiplica e si complica, la semplicità sembra un concetto fuori moda. 

Eppure è proprio nella semplicità che risiede una delle forme più profonde di intelligenza. 

Saper togliere, scegliere, sottrarre: è questa l’arte dimenticata.


Viviamo dentro una giungla di stimoli.

Continui inviti a volere di più, a desiderare tutto, ad accumulare esperienze, oggetti, relazioni, notifiche. 

Ma nella rincorsa al troppo, abbiamo perso il gusto dell’essenziale.


Semplicità non vuol dire povertà, né rinuncia, al contrario fa rima con ricchezza.

Vuol dire lucidità. Vuol dire riconoscere ciò che conta davvero. Vuol dire non riempire il vuoto con l’inutile. È un atto estetico e insieme etico.

Essere semplici in un mondo che ci vuole complessi e sovraccarichi è una forma di resistenza. 

Significa sottrarsi al ricatto del superfluo, alla bulimia dell’apparire, all’ansia del confronto continuo.


Chi sa vivere con il necessario, è un vincente. 

Chi sa desiderare meno, possiede di più. Non perché ha, ma perché sa dare valore. 

La semplicità è la chiave per ritrovare un rapporto sano con il tempo, con le cose, con gli altri, con se stessi.


E c’è chi la semplicità non la predica soltanto, ma la vive. 

Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo, abita ancora nella stessa casa acquistata nel 1959 e guida un’auto usata di quasi dieci anni, perché per le sue esigenze è più che sufficiente. 

Non ostenta, non rincorre il lusso per il lusso. È coerente con ciò che dice.

Non  perché sia tirchio, ma perché è intelligente e disciplinato.

Ed è  proprio quando il mondo ci spinge a comprare l’ennesimo oggetto che promette felicità, vale la pena ricordare proprio le sue parole:

“Quando compri cose che non ti servono, presto sarai costretto a vendere cose che ti servono.”


La semplicità, in fondo, è anche un atto di intelligenza economica. E di libertà.