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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

lunedì 12 maggio 2025

Il caro vita e l’ostentazione: il nuovo oppio del popolo

George Orwell l’aveva previsto nella sua opera più celebre. 

La manipolazione del pensiero, il controllo delle menti, l’omologazione forzata del desiderio e della realtà. 

Ma non fu solo finzione letteraria. 

Anche Trujillo, descritto magistralmente da Mario Vargas Llosa ne La festa del caprone, esercitava un dominio totale sul popolo dominicano, non solo nelle azioni ma perfino nei pensieri. 

La sua dittatura non si limitava a leggi e repressioni: pretendeva consenso interiore, devozione assoluta, verità riscritte e interiorizzate. 

Come se il controllo non fosse completo finché qualcuno osava ancora pensare in modo autonomo.


Oggi non serve più la repressione fisica. 

Oggi si reprime col desiderio. 

Ti convincono che valga più apparire che essere, più consumare che costruire. 

E se non te lo puoi puoi permettere? Nessun problema: c’è il pagamento a rate. 

Dio è morto, sì, ma nelle auto prese a rate, nei cellulari di ultima generazione comprati con sacrifici assurdi, per non sembrare fuori moda.


Il benessere è diventato una messa in scena.

E, nella corsa all’ostentazione, anche chi è povero può sembrare ricco. Basta una carta di credito.

Ci siamo arrivati, ma con un tocco glamour: oggi il Grande Fratello ti lascia scegliere il colore dell’iPhone mentre ti convince che, se sei povero, è colpa tua.

E tu ci credi. Basta che nessuno si accorga che sei povero, almeno finché non ti staccano la luce.


L’illusione del benessere (a rate)

La carta di credito è diventata il lasciapassare per l’illusione del benessere.

Non importa se il conto langue, se ogni fine mese è un salto mortale: ciò che conta è apparire, mostrarsi vincenti, anche solo nell’immagine filtrata di uno smartphone.

Una società che non premia la coerenza o il sacrificio silenzioso, ma l’ostentazione rumorosa. 

E così il successo è diventato un travestimento da indossare, anche se a rate.


Francesco Guccini lo aveva intuito con feroce lucidità: “Dio è morto nelle auto prese a rate”. 

Una frase che oggi risuona come un verdetto. 

Perché in quelle parole c’è tutta la disperazione, di chi ha sostituito la sostanza con il debito, la dignità con lo status symbol.

Dio è morto, sì — e al suo posto c’è l’ultimo cellulare -  sfoggiato con orgoglio ma pagato col fiato corto.


Morale?

Chi risparmia con disciplina viene deriso, chi si indebita per apparire viene applaudito. 

Ma la realtà è spietata: i primi diventano liberi, i secondi restano schiavi.

E la verità, spiace dirlo, è che non c’è niente di rivoluzionario nel vivere sopra le proprie possibilità. 

C’è solo la banalità del fallimento mascherata da moda.

E sia ben chiaro, oltre ogni fraintendimento,  che il pirla moderno non è colui che non ha nulla, ma colui che, pur avendo poco o nulla…finge di avere tutto.




La cultura della popolarità: il suicidio del pensiero critico

 La società ci dice che dobbiamo brillare, che dobbiamo emergere.

 Il nostro valore sembra essere legato alla nostra visibilità, a quanto riusciamo a farci notare in un mondo che corre veloce. 

Brillare è diventato sinonimo di successo, di realizzazione, di felicità. 

Ma a ben vedere, questo concetto di "brillare" sembra più una trappola che una vera aspirazione

È una luce che ci acceca, un riflettore puntato sulla nostra esistenza che, anziché farci vedere chi siamo davvero, finisce per nascondere tutto ciò che c'è di più autentico in noi. 

La ricerca spasmodica del brillante, del visibile, non ci insegna a pensare in modo indipendente, a scoprire la nostra strada, a capire cosa vogliamo veramente dalla vita. 

Ci insegna piuttosto a conformarci, a seguirne le regole, ad accettare, senza riflettere, che il nostro valore dipenda da quanto possiamo apparire.


E ora viene il dubbio che mi turba 

Una domanda che cresce dentro di me: siamo davvero sicuri che la società si sia dimenticata di insegnarci a pensare in modo indipendente? 

E se, invece, fosse voluto? Se fosse proprio questa la strategia? Se fosse necessario che non pensassimo, per evitare che ci facessimo troppe domande? 

Un pensiero critico potrebbe spingerci a mettere in discussione le fondamenta su cui poggia il nostro mondo, le stesse fondamenta su cui si costruiscono il consumismo, l’obbligo di essere sempre in competizione, il bisogno di apparire.

La verità è che non siamo mai stati educati a pensare veramente 

Non siamo stati mai davvero invitati a comprendere il valore di un pensiero libero. 

In un mondo in cui si premia l'apparenza, in cui si promuove la superficialità, dove la bellezza esteriore viene anteposta a quella interiore, il pensiero autonomo diventa pericoloso. 

Perché? Perché un individuo che pensa in modo indipendente non può essere facilmente controllato, non può essere facilmente indirizzato, manipolato. 

Ecco perché, forse, a nessuno conviene che si impari davvero a pensare.


A volte, sembra che il vero obiettivo sia proprio questo: fare in modo che ci arrendiamo all'idea che il pensiero critico non sia necessario

Che ci basti essere condotti dalla corrente di quello che ci viene detto, dai messaggi che ci arrivano da ogni angolo, dalla pubblicità, dai social, dalla politica. 

"Non è importante cosa pensi, è importante cosa mostri". 

È più facile tenere le persone a bada quando non si pongono domande, quando non si sforzano di scoprire la verità, dietro le illusioni che ci vengono offerte come realtà. 

Il nostro mondo, che ci chiede di brillare, ci sta anche chiedendo di smettere di pensare. E questo è pericoloso. Perché quando smettiamo di pensare, smettiamo di essere liberi.

Il paradosso, ovviamente, è che tutti vogliono brillare 

Ma nessuno si chiede più se il riflesso, che vediamo nello specchio, sia davvero il nostro. 

Se quello che ci viene detto di desiderare, sia davvero ciò che vogliamo, o se siamo solo marionette, tirate da fili invisibili che ci spingono a volere sempre più, sempre meglio, sempre più visibile. 

In fondo, non è che la libertà, la vera libertà, sia proprio un pensiero indipendente che si fa strada nel buio, senza bisogno di brillare per essere visto?

Quindi, mi chiedo, siamo davvero liberi in questa corsa al brillante, o siamo soltanto prigionieri di un sistema che ci insegna a non pensare per tenerci sotto controllo?





Il paradosso dell'apparenza e la ricerca della ricchezza

Non è difficile apparire ricchi, almeno non per tutti. 

Basta una carta di credito, un po' di astuzia, e l'apparenza fa il resto. 

La gente si illude di aver raggiunto lo status sociale, di appartenere alla schiera dei "ricchi", perché sfoggia un iPhone di ultima generazione, magari un vestito firmato, o un'auto costosa. 

È un gioco che ha ormai stancato: è facile apparire ricchi, basta solo non essere troppo pigri con i pagamenti a rate.


Tuttavia, la vera ricchezza non si costruisce così. 

È facile sognare di possedere una Ferrari, ma molto più complicato è riuscire ad acquistare una casa senza essere sommersi dai debiti. 

La realtà, quella cruda, è che molti si arrendono alla tentazione di pagamenti dilazionati, senza pensare alle conseguenze sul lungo periodo. 


I consumi impulsivi, legati al desiderio di apparire più di quanto si è, non portano mai alla libertà economica. 

Anzi, sono il primo passo verso la schiavitù finanziaria.

Pensate a quanto costa ogni anno un iPhone nuovo. Il modello top di gamma di Apple, che ogni anno diventa più costoso, è il simbolo di questo paradosso. 

Se avessimo messo da parte i soldi che si spendono annualmente per acquistare l'ultimo modello, avremmo potuti  ottenere qualcosa di ben diverso, qualcosa che davvero aumenta il nostro valore. 


Un esempio? Quei soldi spesi in rate per il cellulare sarebbero potuti essere stati investiti proprio nelle azioni Apple.

Nel 2015, l'iPhone  costava circa 799 euro. 

Se l'eterno acquirente di lunga data, nel 2015 avesse investito gli stessi 799 euro in azioni Apple, oggi, tenendo conto dell'aumento del valore delle azioni (più di 7 volte il loro valore iniziale), avrebbe avuto un ritorno di circa 5.500 euro. 

Sarebbe passato da un singolo acquisto consumistico a un vero investimento, che avrebbe dato i suoi frutti nel tempo.

È uno dei miei più grandi crucci non averlo capito, una grandissima mancanza non essere sceso in profondità, essere stato pigro e non aver studiato. 

Fu, la mia, una stoltezza imperdonabile, per  non aver approfittato, nonostante la realtà di file chilometriche fosse a mia conoscenza.

Ma questa è solo la punta dell'iceberg. 

L'intuizione finanziaria è ben diversa dal desiderio di "consumare l'illusione", come molti fanno. 

È triste, vero? Non per non aver mai acquistato l'ultimo iPhone, ma per non averla  avuta  quell' intuizione, e vedere crescere quel piccolo investimento nel tempo.


Il paradosso è che, mentre tanti si indebitano per un simbolo di status, in realtà potrebbero costruire la propria vera ricchezza con pochi passi. 

Ma, evidentemente, non è facile. Non è facile partire dal basso e arrivare in alto. 

La vera sfida è scegliere di non essere prigionieri della pubblicità, del consumo e delle apparenze. 

Se è difficile diventare ricchi, lo è ancora di più sfuggire alla trappola dell'apparenza.


Ma, anche tra noi comuni mortali, c’è una differenza fondamentale. 

Mentre chi è povero e risparmiatore,  ha la possibilità di cambiare la sua situazione, chi invece, pur essendo povero, non rinuncia alle grandi firme e ai consumi ostentati, non solo è povero, non solo si preclude ogni possibilità, ma è anche pirla.



domenica 11 maggio 2025

La luna è tramontata, ma tornerà a risplendere

Viviamo tempi strani, in cui chi resiste in silenzio non fa notizia. 

Non indossa etichette, non si dichiara, non va in piazza. Ma c'è. Ed è forse la forma di ribellione più pericolosa per ogni sistema: quella che non si vede.


Lo sapeva bene John Steinbeck, quando raccontò di un popolo occupato che non si piega. Non ci sono eroi, non ci sono proclami. 

Solo uomini e donne che, dietro una parvenza di obbedienza, conservano il seme della libertà. 

La loro forza sta proprio nel non collaborare davvero. Nello scegliere, ogni giorno, di non diventare complici. Di non prestare il proprio cuore a ciò che sentono ingiusto.

È una disobbedienza pacata, fatta di scelte piccole ma coerenti. Un rifiuto mormorato, ma incrollabile. E in questo silenzio, apparentemente rassegnato, nasce la vera forza.


Ancora oggi persone vivono così. 

Senza rumore, ma con fermezza. 

Rinunciando a ciò che li svilisce, scegliendo ciò che li rende padroni del proprio tempo e delle proprie cose. 

È una rivoluzione che non chiede il permesso. Non ha leader, non ha bandiere. 

Ma, come la luna, tornerà a risplendere.



Santiago non abita più qui

Ieri mattina ho pubblicato un articolo dal titolo "Il mondo al contrario", dove descrivo una realtà sempre più surreale 

Quella in cui, chi rispetta le regole è visto come un oppressore, e chi le infrange è coccolato da leggi e opinione pubblica.

Tra i temi toccati, uno in particolare merita ulteriore spazio: l’estrema tutela dell’inquilino moroso, spesso a discapito del proprietario, visto quasi come un nemico sociale.

Non voglio ripetere ora quanto già scritto – per chi fosse interessato, può leggerlo qui – ma da quella riflessione ne è nata un’altra, più ampia, più culturale.


Perché questa società, sempre più smarrita, sembra non avere più posto per Santiago, il vecchio pescatore del romanzo di Hemingway.

Santiago è l’uomo che non molla.

Un uomo che ha conosciuto la sconfitta, la fatica, la solitudine. Eppure ogni mattina riparte. Non chiede pietà, non accampa scuse.

Ha le mani piagate dalla corda, la barca logora, la sorte avversa. Eppure affronta il mare. Non perché sia pazzo, ma perché è ciò che si fa: si lotta. Sempre.


Oggi, invece, siamo circondati da chi rivendica diritti senza assumersi doveri. 

Da chi pretende solidarietà a costo zero. Da chi pensa che basti lamentarsi per avere ragione.

Santiago, invece, si guadagna tutto. Anche la sconfitta.

E proprio per questo, anche nella disfatta, è un vincente. Perché la dignità non si misura nel risultato, ma nel modo in cui combatti.


Ma ditemi: in un Paese che Oriana Fallaci descrisse così,  in un Paese dove si difende il furbo e si attacca chi pretende semplicemente giustizia, c’è ancora posto per uno come lui?

Temo di no.

Santiago è sotto sfratto.

Santiago non abita più qui.


L’innovazione non chiede il permesso. Arriva, e basta.

Questa frase di Massimo Russo "L'innovazione non chiede il permesso. Travolge chi è immobile e cambia il Mondo" è potente e merita uno spunto che le renda giustizia. 

Come un’onda che non puoi ignorare, travolge chi resta fermo sulle proprie convinzioni, chi difende lo status quo per paura del cambiamento. È successo con la stampa, con il motore a scoppio, con internet. E sta succedendo oggi con l’intelligenza artificiale, con Bitcoin, con la robotica.

La storia non fa sconti a chi ignora i segnali.

Non è necessario approvare l’innovazione per subirne gli effetti. Puoi ignorarla, ma non potrai evitarla.

In questo contesto, la libertà individuale non è solo un diritto: è una responsabilità. Perché innovare significa anche scegliere, ogni giorno, da che parte stare: quella di chi crea il futuro, o quella di chi ne viene o ne verrà travolto.