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IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

martedì 13 maggio 2025

La ripresa che non arriva (ma che ti fanno vedere lo stesso, da anni!)

Ogni trimestre porta con sé bollettini trionfali: crescita del PIL, ripresa dei consumi, fiducia delle imprese in rialzo. 

I comunicati e le prime pagine dei giornali sembrano orchestrare un unico spartito: “Va tutto bene, o comunque abbastanza bene da non lamentarsi troppo”. 

Ma mentre i numeri sorridono nelle slide, dai supermercati si esce con carrelli sempre più vuoti,, nei contratti precari si moltiplica l’incertezza, e nei sogni delle nuove generazioni si fa strada una parola che un tempo era un’eccezione e ora è la regola: rinuncia (oppure il sogno di essere il prossimo famoso influencer).

Le realtà, che vivono molti cittadini, sono l’opposto della narrazione ottimistica

I salari non crescono da anni, il potere d’acquisto diminuisce mese dopo mese, e il ceto medio si assottiglia fino quasi a scomparire. 

Le famiglie, che una volta risparmiavano, ora si indebitano per restare a galla, mentre il credito al consumo – anche a tassi esorbitanti – diventa l’unico ossigeno per chi vuol far fronte a spese primarie (e talvolta anche a quelle che non lo sono).

Nel frattempo, i media, fanno la loro parte

Le voci fuori dal coro vengono silenziate con ironia, o etichettate come disfattiste. 

E in tutto questo, a emergere, è un paese in cui il benessere è sempre più virtuale, e la sofferenza sempre più reale ma invisibile.


Pasolini, in un’intervista del 1975, disse: “Il vero fascismo è la riduzione dell’uomo a consumatore.”

Aveva capito, con largo anticipo, che la vera dittatura non sarebbe più passata attraverso manganelli e stivali, ma attraverso vetrine e spot. 

Ci illudono di vivere nel paese delle possibilità, mentre ci rendono incapaci (anche per nostra colpa, ammettiamolo!) di immaginare alternative.

La ripresa, forse, c’è davvero. Ma è selettiva, ingiusta, opaca. Non piove su tutti: si concentra in cima, mentre in basso si lotta per l’illusione di starci ancora dentro.

E alla fine, quando anche l’ultimo stipendio si sarà polverizzato nel mutuo e nella spesa, basterà un altro annuncio in prima serata per convincerci che sì, va tutto bene. 

E che se non lo è, dev’essere colpa nostra.



Lavoro 2.0: l’illusione del progresso

 Viviamo nel tempo delle promesse. 

Le nuove tecnologie dovrebbero liberarci dal lavoro, renderci più creativi, più agili, più umani. 

Le intelligenze artificiali, le piattaforme digitali, l’automazione avanzata: ogni innovazione viene presentata come un passo avanti verso un mondo migliore. 

Eppure, mai come oggi, il lavoro sembra svanire sotto i nostri piedi (anche se in troppi non se ne sono ancora accorti).


In ogni settore si parla di “ottimizzazione”, “efficientamento”, “riduzione dei costi”. 

Le imprese investono milioni in strumenti che, di fatto, eliminano posti di lavoro. 

Si celebrano le startup che “distruggono” vecchie professioni, ma si tace sul fatto che, quelle stesse professioni, davano da vivere a famiglie intere. E mentre ci raccontano che nasceranno nuovi lavori, resta il silenzio su chi, intanto, viene lasciato indietro.


Non è la prima volta che accade. E non sarà l'ultima.

Nei decenni passati — come raccontava Steinbeck — bastava un trattore per mettere sul lastrico decine di braccianti. 

Oggi bastano poche righe di codice per sostituire interi team. Allora si invocava il progresso. Oggi lo si idolatra, con una fede quasi religiosa. Ma una domanda resta sospesa: progresso per chi?

Nel frattempo, si moltiplicano le offerte di corsi online, master, webinar per “reinventarsi” 

Quasi a voler dire che la colpa è del lavoratore, se non riesce a stare al passo. M

a reinvenzione per fare cosa, esattamente? Consegnare cibo, generare contenuti per social, fare il rider del pensiero?


Lavoriamo di più, siamo più flessibili, ma anche più poveri, più soli, più facilmente sostituibili. 

E ci viene chiesto di sorridere, di essere “resilienti”, di non lamentarci. Di credere che tutto questo sia normale, anzi, giusto.

Siamo sicuri che sia solo una fase di transizione? O è già il modello definitivo?

E chiudo questo articolo con una frase del geniale Henry Ford:

C'è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti 



Sostenibili a parole, insostenibili nei fatti

Sostenibilità:  Signore e signori! Vi presento la parola più abusata degli ultimi vent’anni!!!

Ovunque la si trovi, ovunque la si invochi. 

Nei consigli d’amministrazione, nei discorsi politici, nelle pubblicità delle multinazionali. 

Sembra essere diventata il lasciapassare etico per qualunque progetto, qualunque prodotto, qualunque decisione. Basta appiccicare un’etichetta verde e il gioco è fatto.


Eppure, qualcosa non mi torna.

Perché, mentre ci parlano di auto elettriche come salvatrici del pianeta, nessuno racconta l’impatto ambientale delle miniere di litio e cobalto, sfruttate spesso in condizioni disumane. 

Mentre ci esortano a fare la raccolta differenziata con lo zelo di un soldatino ecologico, interi container di rifiuti occidentali continuano a finire in Asia e in Africa, fuori dalla vista e dalla coscienza. 

Mentre si tassano le emissioni delle piccole imprese, le grandi industrie inquinanti continuano a godere di deroghe, incentivi, “compensazioni” spesso fittizie. 

E intanto, i fondi ESG — quelli “etici” — investono tranquillamente in colossi energetici che, di verde, hanno solo la brochure.


Il risultato? Un sistema che si muove all’insegna della contraddizione. 

Un ambientalismo da vetrina, più preoccupato di apparire che di essere. 

Una narrazione che parla di futuro sostenibile, ma che intanto continua a bruciare il presente. A chi giova questa ipocrisia? Di certo non al pianeta.


La verità è che le politiche ambientali, così come spesso vengono disegnate, non mirano a un cambiamento reale 

Ma a una gestione controllata del senso di colpa collettivo. 

Il cittadino viene educato a sentirsi responsabile per ogni bottiglia di plastica, ogni lavatrice fuori orario, ogni acquisto non bio. 

Ma il vero nodo, quello sistemico, resta intoccabile. Non si toccano gli interessi consolidati. Non si ristruttura davvero l'economia. Si lavora sull’effetto, non sulla causa.


E allora viene il dubbio: non è che anche in questo caso la sostenibilità sia solo una forma aggiornata di marketing?

Certo, il cambiamento parte anche dal basso. 

Ma non solo da lì! 

E senza coerenza dall’alto, senza un disegno strutturale e onesto, le scelte individuali restano gocce nel deserto. Servono politiche che non siano pensate per fare bella figura nei congressi internazionali, ma per reggere alla prova dei fatti, dei numeri, del tempo.


La sostenibilità vera richiede sacrifici, investimenti lungimiranti, e soprattutto verità

Richiede il coraggio di mettere in discussione modelli economici e produttivi che hanno prosperato sull’insostenibilità. 

Ma finché il verde sarà solo un colore utile per vendere di più, resteremo prigionieri di un’illusione ecologica ben confezionata. E il pianeta, nel frattempo, continuerà a pagare il conto.


E alla fine?

Sarà sempre tutta colpa di quello che va in giro con la macchina a diesel, o della sciura Maria che non ha cambiato la caldaia!




lunedì 12 maggio 2025

Il caro vita e l’ostentazione: il nuovo oppio del popolo

George Orwell l’aveva previsto nella sua opera più celebre. 

La manipolazione del pensiero, il controllo delle menti, l’omologazione forzata del desiderio e della realtà. 

Ma non fu solo finzione letteraria. 

Anche Trujillo, descritto magistralmente da Mario Vargas Llosa ne La festa del caprone, esercitava un dominio totale sul popolo dominicano, non solo nelle azioni ma perfino nei pensieri. 

La sua dittatura non si limitava a leggi e repressioni: pretendeva consenso interiore, devozione assoluta, verità riscritte e interiorizzate. 

Come se il controllo non fosse completo finché qualcuno osava ancora pensare in modo autonomo.


Oggi non serve più la repressione fisica. 

Oggi si reprime col desiderio. 

Ti convincono che valga più apparire che essere, più consumare che costruire. 

E se non te lo puoi puoi permettere? Nessun problema: c’è il pagamento a rate. 

Dio è morto, sì, ma nelle auto prese a rate, nei cellulari di ultima generazione comprati con sacrifici assurdi, per non sembrare fuori moda.


Il benessere è diventato una messa in scena.

E, nella corsa all’ostentazione, anche chi è povero può sembrare ricco. Basta una carta di credito.

Ci siamo arrivati, ma con un tocco glamour: oggi il Grande Fratello ti lascia scegliere il colore dell’iPhone mentre ti convince che, se sei povero, è colpa tua.

E tu ci credi. Basta che nessuno si accorga che sei povero, almeno finché non ti staccano la luce.


L’illusione del benessere (a rate)

La carta di credito è diventata il lasciapassare per l’illusione del benessere.

Non importa se il conto langue, se ogni fine mese è un salto mortale: ciò che conta è apparire, mostrarsi vincenti, anche solo nell’immagine filtrata di uno smartphone.

Una società che non premia la coerenza o il sacrificio silenzioso, ma l’ostentazione rumorosa. 

E così il successo è diventato un travestimento da indossare, anche se a rate.


Francesco Guccini lo aveva intuito con feroce lucidità: “Dio è morto nelle auto prese a rate”. 

Una frase che oggi risuona come un verdetto. 

Perché in quelle parole c’è tutta la disperazione, di chi ha sostituito la sostanza con il debito, la dignità con lo status symbol.

Dio è morto, sì — e al suo posto c’è l’ultimo cellulare -  sfoggiato con orgoglio ma pagato col fiato corto.


Morale?

Chi risparmia con disciplina viene deriso, chi si indebita per apparire viene applaudito. 

Ma la realtà è spietata: i primi diventano liberi, i secondi restano schiavi.

E la verità, spiace dirlo, è che non c’è niente di rivoluzionario nel vivere sopra le proprie possibilità. 

C’è solo la banalità del fallimento mascherata da moda.

E sia ben chiaro, oltre ogni fraintendimento,  che il pirla moderno non è colui che non ha nulla, ma colui che, pur avendo poco o nulla…finge di avere tutto.




La cultura della popolarità: il suicidio del pensiero critico

 La società ci dice che dobbiamo brillare, che dobbiamo emergere.

 Il nostro valore sembra essere legato alla nostra visibilità, a quanto riusciamo a farci notare in un mondo che corre veloce. 

Brillare è diventato sinonimo di successo, di realizzazione, di felicità. 

Ma a ben vedere, questo concetto di "brillare" sembra più una trappola che una vera aspirazione

È una luce che ci acceca, un riflettore puntato sulla nostra esistenza che, anziché farci vedere chi siamo davvero, finisce per nascondere tutto ciò che c'è di più autentico in noi. 

La ricerca spasmodica del brillante, del visibile, non ci insegna a pensare in modo indipendente, a scoprire la nostra strada, a capire cosa vogliamo veramente dalla vita. 

Ci insegna piuttosto a conformarci, a seguirne le regole, ad accettare, senza riflettere, che il nostro valore dipenda da quanto possiamo apparire.


E ora viene il dubbio che mi turba 

Una domanda che cresce dentro di me: siamo davvero sicuri che la società si sia dimenticata di insegnarci a pensare in modo indipendente? 

E se, invece, fosse voluto? Se fosse proprio questa la strategia? Se fosse necessario che non pensassimo, per evitare che ci facessimo troppe domande? 

Un pensiero critico potrebbe spingerci a mettere in discussione le fondamenta su cui poggia il nostro mondo, le stesse fondamenta su cui si costruiscono il consumismo, l’obbligo di essere sempre in competizione, il bisogno di apparire.

La verità è che non siamo mai stati educati a pensare veramente 

Non siamo stati mai davvero invitati a comprendere il valore di un pensiero libero. 

In un mondo in cui si premia l'apparenza, in cui si promuove la superficialità, dove la bellezza esteriore viene anteposta a quella interiore, il pensiero autonomo diventa pericoloso. 

Perché? Perché un individuo che pensa in modo indipendente non può essere facilmente controllato, non può essere facilmente indirizzato, manipolato. 

Ecco perché, forse, a nessuno conviene che si impari davvero a pensare.


A volte, sembra che il vero obiettivo sia proprio questo: fare in modo che ci arrendiamo all'idea che il pensiero critico non sia necessario

Che ci basti essere condotti dalla corrente di quello che ci viene detto, dai messaggi che ci arrivano da ogni angolo, dalla pubblicità, dai social, dalla politica. 

"Non è importante cosa pensi, è importante cosa mostri". 

È più facile tenere le persone a bada quando non si pongono domande, quando non si sforzano di scoprire la verità, dietro le illusioni che ci vengono offerte come realtà. 

Il nostro mondo, che ci chiede di brillare, ci sta anche chiedendo di smettere di pensare. E questo è pericoloso. Perché quando smettiamo di pensare, smettiamo di essere liberi.

Il paradosso, ovviamente, è che tutti vogliono brillare 

Ma nessuno si chiede più se il riflesso, che vediamo nello specchio, sia davvero il nostro. 

Se quello che ci viene detto di desiderare, sia davvero ciò che vogliamo, o se siamo solo marionette, tirate da fili invisibili che ci spingono a volere sempre più, sempre meglio, sempre più visibile. 

In fondo, non è che la libertà, la vera libertà, sia proprio un pensiero indipendente che si fa strada nel buio, senza bisogno di brillare per essere visto?

Quindi, mi chiedo, siamo davvero liberi in questa corsa al brillante, o siamo soltanto prigionieri di un sistema che ci insegna a non pensare per tenerci sotto controllo?





Il paradosso dell'apparenza e la ricerca della ricchezza

Non è difficile apparire ricchi, almeno non per tutti. 

Basta una carta di credito, un po' di astuzia, e l'apparenza fa il resto. 

La gente si illude di aver raggiunto lo status sociale, di appartenere alla schiera dei "ricchi", perché sfoggia un iPhone di ultima generazione, magari un vestito firmato, o un'auto costosa. 

È un gioco che ha ormai stancato: è facile apparire ricchi, basta solo non essere troppo pigri con i pagamenti a rate.


Tuttavia, la vera ricchezza non si costruisce così. 

È facile sognare di possedere una Ferrari, ma molto più complicato è riuscire ad acquistare una casa senza essere sommersi dai debiti. 

La realtà, quella cruda, è che molti si arrendono alla tentazione di pagamenti dilazionati, senza pensare alle conseguenze sul lungo periodo. 


I consumi impulsivi, legati al desiderio di apparire più di quanto si è, non portano mai alla libertà economica. 

Anzi, sono il primo passo verso la schiavitù finanziaria.

Pensate a quanto costa ogni anno un iPhone nuovo. Il modello top di gamma di Apple, che ogni anno diventa più costoso, è il simbolo di questo paradosso. 

Se avessimo messo da parte i soldi che si spendono annualmente per acquistare l'ultimo modello, avremmo potuti  ottenere qualcosa di ben diverso, qualcosa che davvero aumenta il nostro valore. 


Un esempio? Quei soldi spesi in rate per il cellulare sarebbero potuti essere stati investiti proprio nelle azioni Apple.

Nel 2015, l'iPhone  costava circa 799 euro. 

Se l'eterno acquirente di lunga data, nel 2015 avesse investito gli stessi 799 euro in azioni Apple, oggi, tenendo conto dell'aumento del valore delle azioni (più di 7 volte il loro valore iniziale), avrebbe avuto un ritorno di circa 5.500 euro. 

Sarebbe passato da un singolo acquisto consumistico a un vero investimento, che avrebbe dato i suoi frutti nel tempo.

È uno dei miei più grandi crucci non averlo capito, una grandissima mancanza non essere sceso in profondità, essere stato pigro e non aver studiato. 

Fu, la mia, una stoltezza imperdonabile, per  non aver approfittato, nonostante la realtà di file chilometriche fosse a mia conoscenza.

Ma questa è solo la punta dell'iceberg. 

L'intuizione finanziaria è ben diversa dal desiderio di "consumare l'illusione", come molti fanno. 

È triste, vero? Non per non aver mai acquistato l'ultimo iPhone, ma per non averla  avuta  quell' intuizione, e vedere crescere quel piccolo investimento nel tempo.


Il paradosso è che, mentre tanti si indebitano per un simbolo di status, in realtà potrebbero costruire la propria vera ricchezza con pochi passi. 

Ma, evidentemente, non è facile. Non è facile partire dal basso e arrivare in alto. 

La vera sfida è scegliere di non essere prigionieri della pubblicità, del consumo e delle apparenze. 

Se è difficile diventare ricchi, lo è ancora di più sfuggire alla trappola dell'apparenza.


Ma, anche tra noi comuni mortali, c’è una differenza fondamentale. 

Mentre chi è povero e risparmiatore,  ha la possibilità di cambiare la sua situazione, chi invece, pur essendo povero, non rinuncia alle grandi firme e ai consumi ostentati, non solo è povero, non solo si preclude ogni possibilità, ma è anche pirla.